È una strategia. Il secondo report del Tavolo Asilo e Immigrazione, intitolato Ferite di confine, non documenta solo violazioni, ma descrive un sistema costruito per renderle sistemiche, opache, irreversibili. Dopo la fase iniziale del Protocollo Italia-Albania – pensato per deviare in territorio straniero le procedure d’asilo – il governo ha rimodulato il dispositivo, trasferendo in Albania non più i migranti intercettati in mare, ma le persone già trattenute nei Cpr italiani. Il centro di Gjader è diventato la proiezione esterna di una detenzione amministrativa sempre meno controllabile, collocata fuori dai confini nazionali e, con essi, fuori dalle garanzie costituzionali.
Un modello di governo, non solo di frontiera
Il Protocollo Italia-Albania, nato come risposta securitaria, ha assunto via via i contorni di un laboratorio politico anche per l’Europa. Non si tratta più solo di contenere i flussi migratori, ma di dimostrare che lo Stato è in grado di punire esemplarmente chi varca i confini senza autorizzazione. Un potere che si arroga la gestione della libertà personale in un territorio esterno, marginalizzando il Parlamento, indebolendo il controllo giudiziario e vanificando le prerogative dell’opinione pubblica.
Non è un caso che la trasformazione del “modello Albania” sia avvenuta dopo i primi stop giudiziari, riassegnando il protocollo alla detenzione dei migranti nei Cpr, con costi sproporzionati (circa 800 milioni di euro in cinque anni per appena 132 trasferimenti e 32 rimpatri) e logiche operative che nessuna necessità concreta giustifica. Non si libera spazio nei Cpr italiani (che risultano ancora sottoutilizzati), non si accelera alcun rimpatrio. Si allontana, semplicemente, il problema dalla vista. E dalla legge.
Trasferimenti coatti
Il report documenta con precisione la prassi dei trasferimenti coatti verso l’Albania. Che comprime il diritto di difesa.
La Corte Costituzionale ha chiarito che ogni limitazione della libertà personale deve avvenire con atto motivato della magistratura. Una violazione che si ripete e si aggrava nelle modalità materiali del trasferimento, descritte come “disumane e degradanti” anche dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Eccezione permanente
Il Cpr di Gjader da luogo geografico è diventato una zona giuridica di eccezione. Gli standard di cura sono inferiori a quelli italiani, come rilevato dalla Cassazione. Gli episodi critici – atti di autolesionismo, crisi psicotiche, tentativi di suicidio – si moltiplicano (42 eventi critici in poco più di un mese), e i meccanismi di risposta sono spesso inefficaci o tardivi.
La struttura sanitaria è incompleta, il personale albanese non sempre ha titoli equiparati, e i rimandi a ospedali locali non garantiscono standard compatibili con i diritti sanciti dall’articolo 32 della Costituzione. La salute diventa, anche essa, un diritto degradato. I migranti in Albania non hanno accesso alle stesse cure né alla stessa tutela giuridica.
Il costo della propaganda
Dietro tutto questo manca completamente un piano razionale. Lo riconosce lo stesso report: il nuovo “uso” del Protocollo non ha efficacia, non ha coerenza con gli obiettivi dichiarati di rimpatrio. Serve solo a esibire fermezza. È un atto propagandistico che utilizza la vita delle persone per mantenere consenso politico. È uno spettacolo istituzionale in cui la punizione diventa messaggio e il dolore diventa deterrente. Ma non funziona: i numeri lo smentiscono.
E tuttavia continua. Proprio perché è utile non tanto a gestire le migrazioni, quanto a dare forma simbolica a un’ideologia di controllo e marginalizzazione.
L’informazione come ostacolo (da rimuovere)
Il tratto più grave e inquietante, però, è l’opacità. I nomi delle persone trattenute, le nazionalità, i motivi dei trasferimenti: tutto è secretato, retto da una narrazione unilaterale di efficienza e deterrenza, smentita da fatti e cifre. Ma è proprio in questo blackout informativo che si rivela la vera natura del “modello Albania”: uno spazio costruito per non essere visto, per non essere discusso, per sottrarsi al diritto. È il modo con cui si costruisce il silenzio attorno alle persone e si depotenzia ogni critica democratica.
Il report si chiude con un appello: sospendere i trasferimenti, cancellare l’accordo. Non si tratta solo di rispetto dei diritti umani, ma della salvaguardia dell’ordine giuridico democratico. Se uno Stato può trasferire coattivamente individui in un altro Paese, senza controllo, senza motivazione, senza difesa, allora il confine non è più solo geografico: è il punto in cui il diritto si spegne. Il “modello Albania” mostra cosa succede quando si tollera la sospensione dei diritti in nome dell’ordine. Mostra quanto è fragile la dignità, quando diventa merce di scambio nella comunicazione politica. Mostra quanto costa – a tutti – girarsi dall’altra parte.
Nessun confine vale una vita. Ma oggi, anche in Italia, c’è chi è pronto a sacrificare entrambe.