Il processo a Benjamin Netanyahu non è una parentesi secondaria della sua carriera politica: è l’asse su cui ruota la sua strategia di sopravvivenza. In Israele, da maggio 2020, il Tribunale distrettuale di Gerusalemme lo giudica per tre distinti capi di accusa. Il cosiddetto Caso 1000 riguarda i regali ricevuti da uomini d’affari — sigari, champagne, gioielli — in cambio di favori. Il Caso 2000 si concentra sugli accordi tentati con l’editore Arnon Mozes per ottenere articoli favorevoli in cambio di una legge contro i concorrenti. Ma il fascicolo più grave è il Caso 4000: l’accusa di avere favorito la compagnia di telecomunicazioni Bezeq, controllante del sito Walla, attraverso decisioni regolatorie, in cambio di copertura mediatica compiacente. Le imputazioni sono di frode, abuso di fiducia e corruzione, con pene che potrebbero portarlo in carcere.
Rinviato tra guerre e “urgenze diplomatiche”
Il processo procede a singhiozzo, ma non per ragioni tecniche. A più riprese Netanyahu ha chiesto rinvii, esenzioni, cancellazioni. A dicembre 2024 i suoi avvocati hanno chiesto di ridurre le giornate di testimonianza a causa di «impegni governativi straordinari», ma la corte ha respinto. A gennaio 2025 la difesa ha invocato motivi medici dopo un’operazione, ottenendo un rinvio di settimane, salvo poi vederlo uscire dall’ospedale per un voto alla Knesset. A giugno, ancora, i legali hanno chiesto due settimane di sospensione per «questioni diplomatiche di primo ordine»; anche in questo caso la corte ha negato, salvo poi cancellare alcune udienze dopo che i capi del Mossad e dell’intelligence militare avevano parlato di «motivi di sicurezza classificati».
Il copione è sempre lo stesso: emergenze politiche e militari invocate come scudo processuale. È accaduto anche all’inizio di luglio, quando Netanyahu è stato autorizzato a saltare due giornate di deposizione per recarsi negli Stati Uniti. Ed è accaduto a settembre, quando un attacco a Gerusalemme è stato sufficiente per ottenere lo slittamento di un’udienza. Il paradosso è che lo stesso premier che rivendica di essere l’unico in grado di difendere Israele dai nemici esterni, usa quei nemici come leva per sottrarsi ai giudici interni.
Il leader che trasforma la guerra in scudo giudiziario
Netanyahu accompagna ogni richiesta con la retorica dell’assedio. Le accuse sarebbero un «colpo di stato giudiziario» contro il leader della destra israeliana, un «complotto politico-mediatico» orchestrato per abbatterlo. È lo stesso linguaggio con cui ha difeso la riforma giudiziaria del 2023, che limitava i poteri della Corte suprema: smantellare il controllo dei giudici è parte della stessa logica che spinge a trasformare ogni rinvio in un atto di governo.
Il risultato è un processo che, a cinque anni dall’apertura, non è ancora arrivato al cuore delle imputazioni. La giustizia procede a velocità ridotta, mentre Netanyahu usa la scena internazionale per tenere in ostaggio il calendario giudiziario. È il cortocircuito di uno Stato che si definisce democrazia ma consente al suo premier imputato di sfruttare le urgenze di guerra per guadagnare tempo.
La cronaca di queste settimane è emblematica. L’offensiva notturna su Gaza ha coinciso con una nuova giornata in tribunale. Netanyahu era lì, ma l’eco dell’operazione militare ha avvolto la sua deposizione come uno scudo mediatico. È l’immagine plastica del suo metodo: trasformare il conflitto in un paravento, piegare la sicurezza nazionale a copertura delle proprie responsabilità penali.
Dietro la facciata del “difensore della patria”, resta un imputato che scappa dal processo. E un Paese che accetta che la guerra diventi la scusa permanente per sospendere la giustizia.