La Sveglia

Occhi su Gaza, diario di bordo #49

A Gaza la tregua ha la forma di un lager circondato da blocchi di cemento alti tre metri, come confermato dall’esercito israeliano. L’Onu ha avuto il pudore di dire che questa “pace” non regge, mentre la politica occidentale e i quotidiani italiani continuano a venderla come un successo. Ma in questo recinto si continua a morire: nelle ultime 24 ore, secondo il ministero della Sanità di Gaza, altri 45 palestinesi sono stati uccisi, tra cui il giornalista Ahmad Asaad Abu Mutair, colpito mentre faceva il suo lavoro. A Gaza l’umanità è talmente capovolta che si muore anche in tempo di pace.

I valichi che la propaganda annuncia “riaperti” restano un imbuto controllato da chi decide chi può sopravvivere. Nove Paesi europei hanno chiesto l’apertura reale di passaggi sicuri, ma Netanyahu festeggia con Trump e Kushner, mentre Meloni applaude a un modello di pace che tiene perfino i chirurghi in catene: Medici Senza Frontiere chiede il rilascio immediato del dottor Khaled Obeid, detenuto da Israele. In questo tempo sospeso, perfino chi dovrebbe curare è ostaggio di una tregua bavosa, costruita per compiacere i vincitori del racconto.

Intanto una supporter Maga di Trump si gode i popcorn aspettando le bombe su Gaza come fosse una serie tv. E Paolo Mieli, dopo aver definito «sovrappeso» una candidata italo-palestinese in Campania, lancia un razzo verbale contro lo slogan «dal fiume al mare», fingendo di ignorare che la piattaforma del Likud rivendica che solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione “tra il fiume e il mare”. Qui si rovesciano le parole per assolvere i colpevoli.

Non c’è niente di più pericoloso di una guerra che chiamano pace. Per questo dobbiamo tenere gli occhi su Gaza.