La tregua continua a somigliare a un titolo letto da lontano, perché sul terreno i colpi non rispettano le sospensioni annunciate. A ovest della Linea gialla, nel quartiere di Zeitoun, le forze israeliane hanno aperto il fuoco: l’esercito parla di tre «miliziani eliminati» dopo aver superato la linea; le fonti ospedaliere dell’Al-Ahli hanno registrato civili feriti e un uomo ucciso, arrivato già senza vita. Due versioni che disegnano lo stesso spigolo: il confine che dovrebbe garantire sicurezza diventa di nuovo un varco da cui entra la violenza.
Intanto sotto le macerie restano oltre 9.500 dispersi, secondo il Gaza Government Media Office. Numeri che non compaiono nei negoziati di queste ore, concentrati sui «reperti» dei due ostaggi recuperati, mentre la contabilità reale della Striscia continua ad ampliarsi. Dal lato giordano arriva un altro frammento del quadro: il ministro degli Esteri Ayman Safadi denuncia più di 500 violazioni del cessate il fuoco e aiuti fermi al 20 per cento del fabbisogno. La tregua, vista da qui, è una cornice che non riesce a trattenere nulla.
Intanto il corridoio di Netzarim cambia forma: le squadre ingegneristiche egiziane stanno livellando il terreno per costruire nuovi campi destinati agli sfollati, mentre a Al-Zahra nasce un secondo insediamento. È la geografia della Gaza che verrà, tracciata mentre la Striscia è ancora ferita. E Rafah apre solo in uscita, sotto supervisione Ue e con autorizzazione israeliana, senza alcuna indicazione sul rientro. Una porta che rischia di trasformare l’emergenza in migrazione definitiva.
Sul piano politico la Knesset discute l’adozione del piano in 20 punti dell’amministrazione Trump; Netanyahu prepara il viaggio a Washington; Meloni da Manama descrive quel progetto come «un’opportunità reale». La distanza con ciò che accade a Gaza resta intatta: i confini si ridisegnano a colpi di bulldozer e di fucile, mentre la diplomazia continua a parlare la lingua delle mappe e delle promesse.