La sublime voce di Diana Krall. L’improvvisazione geniale al piano di Stefano Bollani. La spiritualità di uno dei più grandi pianisti della storia del jazz, Armando “Chick” Corea. Non solo musicisti, ma veri mostri sacri. Perché, come dice lo slogan di quest’anno del Roma Jazz Festival che si terrà dal 5 ottobre al 28 novembre, “jazz is my religion”. Un atto d’amore, un verso questo tratto da una poesia dello scrittore americano Ted Joans. Ed è proprio sulle sue tracce che quest’anno il festival vuol celebrare il jazz come una grande forza che, secondo le parole del direttore generale Unesco Irina Bokova, veicola “un messaggio universale di pace, che armonizza ritmo e significato, che porta valori significativi per ogni uomo e donna, che fornisce opportunità uniche per la comprensione reciproca, attraverso l’ascolto, la riproduzione, l’improvvisazione”. Ma quest’anno il festival vivrà anche di importanti amarcord, per la commemorazione di dati fondamentali nella storia del jazz: i cent’anni dalla pubblicazione del primo disco di jazz, il centenario dalla nascita di Thelonious Monk, Ella Fitzgerald e Dizzy Gillespie, il cinquantenario della scomparsa di John Coltrane.
E allora eccoli, i grandi del jazz alternarsi in concerti ed esperimenti, come solo la musica che fu degli afroamericani sfruttati, sa e può regalare. Tigran Hamasyan, armeno, classe 1987, è riuscito ad esempio a fondere il linguaggio del jazz con la sua tradizione nativa. E poi le origini. L’Africa, grande madre ancestrale del jazz, ha prodotto di per sé pochi jazzisti. Ma l’Etiopia è terra di musica e sfruttamento. E allora spazio a Mulatu Astatke, il primo africano a studiare alla Berklee, nonché a suonare con Duke Ellington con il suo vibrafono. Senza dimenticare Corey Henry & The Funk Apostles, che torneranno alle radici “ecclesiastiche” del jazz, parte fondante del genere insieme alla corrente blues. E non mancheranno, come richiede l’occasione, virtuosismi eclettici, come quelli che sicuramente regaleranno Kenny Barron, Dado Moroni, Cyrus Chestnut e Benny Green: quattro maestri e solo due pianoforti nel loro personalissimo omaggio a Theolonious Monk.
