Partiti affondati dai franchi tiratori. I leader sono generali senza esercito

I franchi tiratori affondano i leader dei partiti sulla legge elettorale. Ecco cosa accade ora a Berlusconi, Di Maio e Renzi.

Un conto è Silvio Berlusconi, un altro il partito. Dentro Forza Italia, anche se non lo dicono, sono parecchi quelli che ieri hanno tirato un sospiro di sollievo dopo che il patto con Pd, M5S e Lega è saltato. L’ex premier ha fatto filtrare la propria irritazione nei confronti di Michaela Biancofiore, la deputata (in passato una delle sue “amazzoni”) che ha creato il casus belli, e nel pomeriggio ha diramato una nota con la quale ha chiarito che “l’incidente di oggi (ieri, ndr) in Aula, su un emendamento non condiviso dal quale FI ha preso immediatamente le distanze, non è una buona ragione per accantonare uno sforzo generoso sul quale avevamo trovato una convergenza con il Partito democratico, con i Cinque Stelle e con la Lega”. Ma da qualche giorno a questa parte, come raccontato da La Notizia, i gruppi parlamentari sono in agitazione per via della decisione del Cavaliere di riconfermare solo un terzo degli attuali deputati e senatori (92 in tutto), componendo le liste per le prossime elezioni su cui sta lavorando insieme a Gianni Letta, Niccolò Ghedini e altri con amministratori locali ed esponenti della cosiddetta società civile. Ovvio quindi che quanto accaduto ieri alla Camera complichi i piani dell’ex presidente del Milan, il quale, è bene ricordarlo, è stato quello che per primo ha lanciato (intervista al Messaggero 21 maggio del scorso) il sistema tedesco grazie al quale andare a votare in autunno. “A noi il Consultellum può anche andare bene ma ormai il voto anticipato non c’è più”, sottolineavano ieri dentro Forza Italia. Berlusconi, è noto, aveva tutt’altri piani: una legge che non avrebbe fatto vincitori né vinti favorendo le larghe intese col Pd gli avrebbe permesso di tornare in scena da protagonista, mettendo fuorigioco Salvini. Per ora resta tutto un miraggio.

Renzi rischia l’ennesima faida interna – Un Pd ancora più dilaniato e balcanizzato. L’affossamento della legge elettorale consegna al segretario Matteo Renzi un partito ulteriormente in crisi. La minoranza che fa riferimento al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva manifestato più di qualche perplessità sull’accordo, che avrebbe favorito una coalizione tra dem e Forza Italia. Il senatore Vannino Chiti, quando il patto sembrava ancora reggere, aveva annunciato di non voler votare il testo così com’era uscito dalla commissione Affari costituzionali alla Camera. Ma ora che la strategia renziana è naufragata la faida può diventare più cruenta. Anche perché l’ex premier è convinto che le prossime liste dovranno essere a sua immagine e somiglianza per evitare agguati in casa. Perché se è vero che i franchi tiratori erano nelle file del M5S, è altrettanto innegabile che tra i deputati del Pd ci sono state delle assenze finite sotto la lente di ingrandimento. Dando fiato agli attacchi pentastellati. Resta il fatto che nella selezione delle candidature bisognerà considerare gli equilibri congressuali: a Orlando spetta un 20% e al presidente della Puglia, Michele Emiliano, un altro 10%. Altrimenti si rischia un’ennesima spaccatura. Gli orlandiani hanno in ogni caso respinto qualsiasi ipotesi di pugnalata ai compagni di partito: “Non eravamo d’accordo con questa legge elettorale iper-proporzionalista, ma l’abbiamo sostenuta”, ha scandito il deputato Andrea Martella. La questione però è solo congelata: i dem si preparano al braccio di ferro tra chi vuole tornare alle elezioni con il Consultellum, come gran parte dei renziani, e i fedelissimi del Guardasigilli, che preferiscono un orizzonte di legislatura.

Vincono gli ortodossi, Di Maio non fa festa – Alla fine l’ha spuntata l’ala dei cosiddetti “ortodossi”, in primis il capogruppo alla Camera, Roberto Fico, e la senatrice Paola Taverna, che nei giorni scorsi non aveva esitato a bollare il sistema tedesco come un “mega Porcellum”. L’incidente che ha portato alla rottura dell’accordo con Pd, Forza Italia e Lega, però, oltre a far finire il Movimento 5 Stelle sotto il fuoco di fila del partito di Matteo Renzi, ha messo di fatto una pietra bella grossa sulle ambizioni di alcuni deputati e senatori pentastellati, che già si vedevano potenziali ministri e sottosegretari. A cominciare ovviamente dal vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, candidato premier in pectore del Movimento. Raccontano che sia proprio stato lui, ieri, il più deluso per com’è andata a finire la gestione di una partita che insieme a Beppe Grillo e Davide Casaleggio aveva deciso di giocare, mettendo da parte la proverbiale reticenza a trattare con quei partiti considerati i fautori di mille disastri. Ad alimentare la rabbia dei fedelissimi del leader, inoltre, c’è il fatto che se fosse stato per loro gli emendamenti che hanno decretato il triplice fischio sul patto quadripartito sarebbero stati ritirati. Una decisione che gli ortodossi però non avrebbero digerito, così si è deciso (col senno di poi fatalmente) di lasciare le cose come stavano. Quando si è capito che l’orizzonte adesso è quello di arrivare al 2018, circostanza che non dispiace a molti deputati e senatori a rischio candidatura, lo stesso Di Maio ha provato a giocare in contropiede. “La legislatura finisce oggi”, ha detto, “ora si vada a votare e basta”. Ma il suo è rimasto nient’altro che un grido nel deserto. Ora a Grillo e Casaleggio jr. toccherà riportare su una linea comune le due anime del Movimento. Ammesso che ciò sia ancora effettivamente possibile.