Per due anni il Partito democratico ha rinviato una decisione che diventa inevitabile. Dalla vittoria di Elly Schlein alle primarie del febbraio 2023, ottenuta contro Stefano Bonaccini ribaltando il voto degli iscritti, il partito ha vissuto in una condizione di doppio equilibrio. La segreteria ha imposto una linea politica netta su lavoro, sanità e diritti, mentre la presidenza ha continuato a garantire una gestione attenta ai rapporti interni e ai territori. Una convivenza che ha funzionato finché nessuno ha preteso di trasformarla in direzione.
La fine della diarchia silenziosa
Il passaggio di Stefano Bonaccini nella maggioranza che sostiene la segretaria potrebbe arrivare ufficialmente nell’assemblea di domani (domenica 14 dicembre), proprio alla fine di questo percorso. La decisione non nasce in queste ore e non è una scelta estemporanea. Già nella primavera del 2025, durante la campagna referendaria promossa dalla Cgil su lavoro e cittadinanza, l’ex governatore dell’Emilia-Romagna aveva scelto di non distinguersi dalla linea della segreteria, evitando prese di posizione sui quesiti che avrebbero inciso direttamente sul Jobs Act, approvato quando il Pd era guidato da Matteo Renzi. Una scelta confermata nei mesi successivi, con l’assenza di interventi critici sulla linea internazionale del partito e sul posizionamento europeo definito da Schlein.
Tra ottobre e novembre il quadro si è chiarito. Il 24 ottobre a Milano, ai Bagni Misteriosi, Giorgio Gori, Lorenzo Guerini e Pina Picierno hanno promosso l’incontro “Crescere”, rivendicando apertamente una piattaforma alternativa su crescita economica, politica industriale e politica estera. A fine novembre, a Prato, lo stesso gruppo ha rilanciato il messaggio, parlando esplicitamente della necessità di discutere non la segreteria ma la candidatura alla guida del governo. In quei giorni Bonaccini ha scelto di non partecipare e di non commentare. Il silenzio è stato il primo atto politico.
Il correntone e la messa in sicurezza della segreteria
Nel frattempo, il 29 e 30 novembre, a Montepulciano, le aree che sostengono Schlein hanno dato vita a un coordinamento stabile: AreaDem di Dario Franceschini, l’area di Andrea Orlando, gli ex Articolo Uno guidati da Roberto Speranza. Un’operazione esplicita di rafforzamento della maggioranza, rivendicata come sostegno alla segreteria in vista delle scadenze del 2026 e del 2027. In quell’occasione, più interventi hanno richiamato lo statuto del partito e la coincidenza tra segreteria e leadership elettorale.
La settimana successiva, Bonaccini ha sciolto la riserva. In un’intervista televisiva ha parlato di «condizioni per lavorare ancora più uniti», anticipando la decisione poi condivisa con i delegati di Energia Popolare convocati alla vigilia dell’assemblea. Il passaggio non comporta nuovi ingressi in segreteria né modifiche formali agli assetti. Segna però la fine di una minoranza organizzata che, nei fatti, aveva già smesso di esercitare una funzione di opposizione.
L’effetto è immediato. L’assemblea nazionale di domani, formalmente chiamata a votare la relazione della segretaria e il rendiconto amministrativo, diventa il luogo in cui viene certificato un nuovo equilibrio. Con Bonaccini dentro la maggioranza, la leadership di Schlein smette di essere contendibile negli organismi del partito. Non serve un voto sulla candidatura a Palazzo Chigi: la direzione politica è già tracciata.
La minoranza riformista e il fattore territoriale
La frattura si sposta altrove. L’area riformista che si è riunita a Milano e Prato resta fuori da questo perimetro e sceglie una strategia diversa: non lo scontro frontale sulla segreteria, ma il logoramento sulla prospettiva di governo. È una minoranza che parla soprattutto al Nord, che insiste su produttività, impresa, atlantismo, e che concentra il tiro sulla figura della candidata premier, giudicata inadatta a competere su quel terreno. I numeri negli organismi non sono dalla loro parte, ma la pressione mediatica è destinata a continuare.
Le ricadute territoriali sono già visibili e vanno oltre il caso piemontese. In Piemonte, dove Energia Popolare esprime il segretario regionale Domenico Rossi e quello metropolitano Marcello Mazzù, l’equilibrio costruito prima del congresso del 2023 perde copertura nazionale. Il gruppo consiliare a Palazzo Lascaris, diviso tra l’area guidata da Gianna Pentenero e i riformisti, si trova ora senza una mediazione romana. Dinamiche simili si registrano in altre regioni del Nord, dalla Lombardia al Veneto, dove il riformismo amministrativo aveva trovato spazio proprio nella protezione garantita dall’asse con Bonaccini. Al contrario, in Emilia-Romagna, Toscana e in larga parte del Centro-Sud, l’allineamento tra segreterie regionali e linea nazionale risulta già consolidato. La fine dell’eccezione piemontese segnala dunque un passaggio più ampio: la riduzione delle autonomie territoriali costruite su equilibri correntizi non più riconosciuti a livello nazionale.
Domani il Pd arriva quindi a una scelta che non riguarda solo i rapporti interni. Decide se archiviare definitivamente la stagione delle correnti come luoghi di veto e presentarsi come un partito con una linea riconoscibile, anche a costo di restringere il campo. È una decisione che rafforza la segreteria e mette alla prova chi, dentro il partito, continua a parlare di pluralismo mentre lavora per consumare la leadership dall’esterno.