Il 9 maggio 1978 Peppino Impastato fu assassinato dalla mafia. Il suo corpo fu dilaniato da una carica di tritolo sui binari della ferrovia a Cinisi. Quel giorno a Roma veniva ritrovato il cadavere di Aldo Moro. L’emergenza terrorismo oscurò l’omicidio di Impastato e aprì la strada a un depistaggio che durò decenni.
Peppino non fu solo una vittima. Fu un militante, un giornalista, un intellettuale politico. Aveva rotto con una famiglia mafiosa – il padre legato a Cosa Nostra, lo zio capomafia ucciso in un attentato – per combattere la mafia da sinistra, con la parola, la satira, l’inchiesta. Aveva fondato Radio Aut, attaccava Gaetano Badalamenti, che ribattezzò “Tano Seduto”, e aveva denunciato il sistema criminale che si muoveva attorno all’aeroporto di Punta Raisi.
Depistaggi, archiviazioni e promozioni
L’omicidio avvenne durante la campagna elettorale, a pochi giorni dal voto in cui fu simbolicamente eletto con 199 preferenze. La versione iniziale delle forze dell’ordine fu quella del suicidio o dell’attentato fallito. Le prove ignorate, la scena manipolata, la pietra insanguinata bollata come “sangue mestruale”. Le responsabilità di questo depistaggio sono documentate.
La Commissione parlamentare antimafia, nella relazione approvata nel dicembre 2000, aveva già accertato le responsabilità istituzionali nel depistaggio. Ma nessuno ha pagato. Le uniche condanne definitive sono arrivate a distanza di oltre vent’anni: 30 anni per Vito Palazzolo nel 2001, ergastolo per Badalamenti nel 2002, grazie alla testimonianza del collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo.
Una memoria utile solo quando tace
Oggi la figura di Peppino Impastato continua a disturbare. Giovanni Russo Spena ha denunciato il tentativo di trasformarlo in un’icona innocua. Salvatore Borsellino ha criticato l’uso retorico dell’antimafia a fronte di una mafia sempre più silente, finanziaria e infiltrata nelle istituzioni.
Il suo messaggio – verità, giustizia sociale, cultura come resistenza – è ancora attuale. Ma disatteso. La libertà di informazione, che per Impastato fu arma e bersaglio, è oggi oggetto di preoccupazione. Le critiche alle ingerenze governative sulla Rai, le proposte di legge che limitano il diritto di cronaca, il silenzio istituzionale sulla criminalità organizzata, sono segnali che vanno letti.
L’antimafia sociale di Peppino si opponeva alla diseguaglianza. Difendeva gli espropriati, gli edili, i disoccupati. Era una lotta contro un sistema.
Riforme discutibili
Politiche come l’autonomia differenziata, che rischiano di aggravare il divario Nord-Sud, vanno in direzione contraria. Non basta dichiararsi contro la mafia: bisogna rimuoverne le condizioni materiali.
Peppino chiamava la mafia “una montagna di merda”. Intuiva che prima ancora delle armi era la cultura mafiosa a dover essere smontata. Oggi quella mentalità – clientelare, familistica, opaca – resta intatta. Un governo tradisce la memoria di Impastato non se non celebra, ma se non educa. Non se non reprime, ma se non previene. Non se non parla, ma se non agisce.
La memoria è una responsabilità. L’antimafia, un lavoro. Peppino non è una figura da commemorare. È una voce da ascoltare, ancora.