Permesso a punti, Salvini presenta come nuova un’idea vecchia. Con profili di dubbia costituzionalità

Salvini rilancia il “patentino” per i migranti, ma in Italia esiste già un sistema a crediti e le leggi vietano automatismi.

Permesso a punti, Salvini presenta come nuova un’idea vecchia. Con profili di dubbia costituzionalità

In tv funziona: il paragone con la patente a punti è di quelli che si imprimono facilmente, soprattutto in un talk show mattutino. Matteo Salvini lo ha usato oggi su Canale 5: «Stiamo lavorando al permesso di soggiorno a punti», ha detto, immaginando un meccanismo che preveda decurtazioni per chi commette reati o infrazioni, fino alla revoca del titolo e all’espulsione. Il ministro rilancia così un’idea presentata come nuova, quando in realtà nell’ordinamento italiano un sistema di crediti per i migranti è già in vigore dal 2012.

La proposta di Salvini: un modello già esistente e quasi dimenticato

Il cosiddetto “permesso a punti” fu introdotto con il D.P.R. 179 del 2011, entrato in vigore l’anno successivo. Si tratta dell’“accordo di integrazione”, che obbliga chi richiede il primo permesso di soggiorno a sottoscrivere un patto con lo Stato: occorre raggiungere 30 crediti, seguendo corsi di lingua italiana e di educazione civica. Le Prefetture organizzano i test e monitorano i percorsi. Il sistema prevede decurtazioni per assenze, inadempienze o mancato rispetto delle regole. Se i crediti scendono a zero, il permesso è revocato.

Il modello voluto dal legislatore più di dieci anni fa puntava all’integrazione: imparare la lingua, conoscere le istituzioni, dimostrare di saper vivere e lavorare in Italia. Nel tempo, però, è rimasto in gran parte inapplicato. Molti rapporti delle associazioni hanno documentato come i corsi siano stati poco frequentati e le decurtazioni rarissime, con Prefetture spesso prive di risorse per monitorare. Nonostante questo, il meccanismo esiste ed è tuttora previsto dalla normativa.

L’ostacolo dei principi costituzionali ed europei

Il progetto evocato da Salvini sposta l’attenzione: non più obblighi formativi, ma decadenza automatica del permesso in caso di reati o infrazioni. È qui che entrano in gioco i vincoli giuridici. La Corte costituzionale, in più sentenze, ha dichiarato illegittimi gli automatismi in materia di espulsione, richiedendo valutazioni individuali e proporzionate. Anche l’Unione europea impone limiti stringenti. La direttiva 2003/109 sui soggiornanti di lungo periodo stabilisce che l’allontanamento può avvenire solo per motivi gravi e deve essere motivato, proporzionato e ricorribile. La direttiva rimpatri del 2008 prevede garanzie procedurali e tempi che non possono essere elusi. E la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in applicazione dell’articolo 8 della Convenzione, ribadisce che la vita familiare e i legami sociali vanno tutelati anche per chi non è cittadino.

C’è poi l’equivoco sulla cittadinanza. Salvini, sempre nello stesso intervento, ha evocato la possibilità di “togliere i punti” anche ai cittadini naturalizzati. È un’ipotesi giuridicamente infondata. I cittadini italiani non sono espellibili, e la cittadinanza non è revocabile per reati comuni. Solo la legge 91 del 1992 prevede la revoca nei casi di terrorismo o gravi minacce alla sicurezza nazionale, con procedura complessa e senza automatismi.

L’introduzione di un “permesso a punti penale” comporterebbe inoltre il rischio di una doppia pena: da un lato la condanna del tribunale, dall’altro l’espulsione automatica. La Corte di giustizia dell’Ue ha già giudicato simili duplicazioni incompatibili con i principi del diritto europeo. Il risultato sarebbe una disparità di trattamento evidente tra cittadini e stranieri, con un contenzioso destinato a finire davanti alla Consulta e alla Cedu.

Un annuncio politico più che una riforma

Dal punto di vista pratico, dunque, il progetto ha scarse possibilità di tradursi in legge senza incorrere in vizi di costituzionalità. Più che uno strumento operativo, appare un annuncio politico: utile a rilanciare la retorica della Lega sull’ordine e la sicurezza, meno ad affrontare il nodo reale dell’integrazione. Gli strumenti già previsti dal legislatore non hanno mai ricevuto adeguati finanziamenti e controlli. Il richiamo al “patentino” per i migranti rischia così di aggiungere un altro slogan a un quadro normativo già complesso e poco applicato.

Il messaggio resta efficace nei talk show, ma la realtà giuridica è diversa. L’Italia ha già un permesso a punti. E l’Europa, insieme alla sua stessa Costituzione, impedisce scorciatoie che riducono a propaganda il tema dei diritti.