Hanno abbandonato l’uncino e tolto la benda dall’occhio perché ora usano un mouse e una tastiera. È l’esercito dei pirati digitali, più o meno consapevoli di esserlo, con cui l’industria audiovisiva e la finanza combattono da anni una guerra senza fine. Una faida che ieri ha messo ko la piattaforma illegale Xtream Codes, su ordine della Procura di Napoli, che gestiva un giro d’affari spaventoso. Oltre 5 milioni di clienti complessivi, pari a 60 milioni di euro annui rigorosamente in nero, che grazie ad un abbonamento da 12 euro al mese riuscivano a guardare tutti i programmi di Sky, Mediaset Premium e Netflix.
Un’organizzazione di pirati, gestita da 25 persone inclusi i due ideatori greci, che aveva messo le radici in Italia principalmente tra Roma, Napoli, Bari e Palermo. Eppure questa non è che l’ennesima operazione, destinata ad essere seguita da molte altre identiche, in quello che appare un circolo vizioso, che non risolve il problema. A ben vedere, infatti, i reati informatici ai danni di editori e creatori di contenuti non stanno affatto diminuendo. Anzi continuano a prosperare, evolvendo assieme alle nuove tecnologie, mentre a restare indietro sono sempre più le normative, specie quelle relative al copyright, e le soluzioni al problema che potrebbero usare gli editori.
Così la pirateria è passata dalle cassette ai Blu-ray tarocchi e dallo scambio di file attraverso appositi programmi, i cosiddetti P2P, fino all’attuale era delle IPTV. Un fenomeno che non sembra subire battute d’arresto come emerge dall’ultimo report di Ispos per Fapav, la federazione contro la pirateria audiovisiva, relativo al 2018. Dati alla mano, solo in quell’anno, i mancati incassi per l’industria audiovisiva italiana causati dalla pirateria hanno toccato i 600 milioni di euro, mettendo a rischio 6mila posti di lavoro. Un’enormità che ha un impatto anche sui conti del Sistema Paese perché nello stesso periodo sono stati stimati 455 milioni di euro di danno sull’economia italiana in termini di PIL e 203 milioni di euro di introiti fiscali persi per sempre.
Insomma dall’analisi del report appare chiaro il fallimento delle campagne di sensibilizzazione al problema che sono state usate in passsato passati. Infatti l’83% dei clienti di servizi illegali sa di commettere un reato. Inoltre il 34% dei pirati ammette di preferirli ai sistemi legali perché così risparmiano sui costi mentre il 24% di loro afferma di farlo perché “tutt’altro che complicato”. Insomma i dati dicono che l’unica cosa che potrebbe funzionare, pur senza risolvere definitivamente il problema, sarebbe l’abbassamento del prezzo per usufruire dei servizi leciti. Una soluzione che l’industria audiovisiva sembra snobbare al punto che, quest’anno, perfino il gigante statunitense Netflix ha deciso di aumentare i costi di abbonamento. Rincari che spesso le aziende del settore spiegano proprio con la presenza di una pirateria massiccia non considerando, però, che così aggravano il problema, ingrossando le fila dei pirati.