Processo Mediaset, per i giudici milanesi Silvio pensò la frode

di Lapo Mazzei

Un colpo così, forse, non se lo aspettava nessuno. Nemmeno i fedelissimi del Cavaliere che si erano attrezzati per affrontare altre battaglie. Ma le sorprese, molto spesso, arrivano quando meno te lo aspetti e da fronti insospettabili. Perché nemmeno il giallista più fantasioso poteva immaginare che a dare una mano al Cavaliere fosse la Procura di Milano. La stessa che è riuscita a trascinarlo in Cassazione per una condanna in via definitiva. E non si tratta di un aiuto di facciata ma sostanziale, essendo contenuto nelle motivazioni della Corte di Appello che ha ridotto a due gli anni d’interdizione inflitti al Cavaliere. Insomma, il carnefice che diventa alleato è un capitolo che mancava nel libro della politica italiana, dove è già avvenuto tutto e il suo esatto contrario. Perché se la sentenza  da una parte afferma chiaramente che Silvio Berlusconi è stato ritenuto dai giudici milanesi “l’ideatore e organizzatore del sistema e fruitore dei vantaggi relativi”, in relazione alla frode fiscale nella compravendita dei diritti tv da parte del gruppo Mediaset, dall’altra offre un grimaldello agli esponenti del Pdl. La legge Severino, secondo le toghe del capoluogo lombardo, “ha un ambito di applicazione distinto, ben diverso e certamente non sovrapponibile” con quello oggetto del processo con cui Silvio Berlusconi è stato condannato all’interdizione per due anni dai pubblici uffici nell’ambito della vicenda Mediaset. Insomma, la decisione dei giudici milanesi è una sanzione amministrativa, la condanna inflitta dalla Cassazione è penale.  Dunque  la Severino  non è applicabile nella parte relativa alla retroattività. E su questo  punto si gioca la battaglia giuridico-politica  per salvare il Cavaliere, anche se la tesi sposata subito dali uomini del Cavaliere dovrà essere dimostrata e sostenuta giuridicamente. Anche perché non è detto che  tutto ciò abbia realmente un riflesso diretto con il voto in Senato che deve decidere sul Berlusconi condannato, più che interdetto. Per il Pdl è tutto chiaro e la Severino non è retroattiva, per il Pd gli azzurri stanno solo imbrogliando le carte.

Leggendo le motivazioni
Tornando allo specifico delle motivazioni della Corte d’appello di Milano, relative alla sentenza che ha condannato l’ex premier a una interdizione dai pubblici uffici da due anni, in seguito alla decisione della Corte di Cassazione, che nel confermare la condanna a quattro anni per frode fiscale aveva rimandato gli atti alla Corte d’appello perché rideterminasse la pena accessoria dell’interdizione, appare chiara la colpevolezza dell’ex premier. “Il ruolo pubblicamente assunto dall’imputato, non più e non solo come uno dei principali imprenditori incidenti sull’economia italiana, ma anche e soprattutto come uomo politico, aggrava la valutazione della sua condotta”, sostengono  i giudici nelle motivazioni del ricalcolo del l’interdizione per Berlusconi.  Non c’è “prova alcuna”, inoltre, che il Cavaliere abbia estinto il suo “debito tributario” per il caso Mediaset ma si è limitato a formulare “una mera proposta di adesione alla conciliazione extra giudiziale”. In particolare la sentenza, continuano i giudici, presieduti da Arturo Soprano,  ha definitivamente accertato che Berlusconi “è stato l’ideatore ed organizzatore negli anni Ottanta della galassia di società estere”, alcune delle quali occulte, “collettrici di fondi neri e apparenti intermediarie nell’acquisto dei diritti televisivi”. Lo stesso Berlusconi “ha continuato ad avvantaggiarsi del medesimo meccanismo anche dopo la quotazione in Borsa di Mediaset nel 1994, pur essendo state parzialmente modificate le società intermediarie”, in particolare con la già citata costituzione di Ims, avvalendosi sempre della collaborazione dei medesimi soggetti a lui molto vicini: Lorenzano e Bernasconi. Quest’ultimo finché in vita. Tant’è vero che in quel periodo Berlusconi aveva continuato a partecipare alle riunioni “per decidere le strategie del gruppo”. “Si ritiene che anche la durata della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici”, sostengono i giudici nelle motivazioni della sentenza, “debba essere commisurata alla oggettiva gravitá dei fatti contestati e quindi non possa attestarsi sul minimo della pena”. In un altro passaggio si evidenze che “sotto il profilo soggettivo va valutato che gli accertamenti contenuti nella sentenza della Corte d’Appello, divenuta definitiva ad eccezione del capo qui esaminato, dimostrano la particolare intensitá del dolo dell’imputato nella commissione del reato contestato e perseveranza in esso”, concludono i giudici nelle dieci pagine di motivazioni.