Il primo report post elettorale dell’Osce-Odhir parlano di elezioni svolte in forma “sostanzialmente corretta”, altri credono che siano state tutt’altro che eque. Recep Tayyip Erdoğan è stato eletto per la terza volta (la prima è stata nel 2003) presidente della Repubblica turca con il 52% dei voti.
Erdogan è decisivo per bloccare i flussi migratori verso l’Ue. Con il piede in due staffe, in Ucraina tra Mosca e gli Usa
Agli osservatori non è sfuggito il senso di arringare la folla dopo la vittoria dal palazzo presidenziale, rinunciando al balcone della sede del suo partito Giustizia e Sviluppo (Akp). Il presidente turco vuole apparire come il rappresentante delle istituzioni, allontanato l’idea di un Paese fortemente diviso. Il risultato del suo oppositore Kemal Kilicdaroglu, nonostante il boicottaggio mediatico e giudiziario (quasi 300 arresti solo tra il primo e il secondo turno). Sul fronte interno è molto probabile che l’alleanza eterogenea che si era costituita per sfidare il sultano Erdoğan si sciolga.
I sei partiti che la compongono vanno dal secolare centrosinistra del CHP a partiti nazionalisti e partiti islamisti. Sfruttando questo momento di debolezza dell’opposizione Erdogan ha già lanciato la campagna elettorale per le elezioni del prossimo anno per riprendersi le principali città turche attualmente in mano all’opposizione, vincitrice nel 2019 con il sostegno dei curdi. Nel suo primo discorso dopo la vittoria di domenica Erdoğan l’ha detto: “Sarò qui finché non sarò nella tomba”.
Cambiare la Costituzione per potersi ricandidare ad una delle sue prossime battaglie politiche. Ma il primo scoglio per il presidente turco è sicuramente l’economia. In vista delle elezioni Erdoğan ha mantenuto bassi i tassi di interesse forzando la Banca centrale e ha dovuto alzare i salari minimi approvando alcune misure di welfare per non perdere i suoi elettori più fedeli. Un po’ di ossigeno gliel’hanno concesso i finanziamenti dei Paesi del Golfo (Qatar in primis) e la dilazione dei pagamenti del gas russo ma l’inflazione al 50% (che ha toccato punte dell’80%) e la svalutazione della lira turca potrebbero presagire un imminente crollo. La Banca centrale non ha più riserve e secondo The Economist sarebbero almeno 70 i miliardi di euro da restituire. La partita, ancora una volta, si giocherà sugli scenari internazionali.
Erdoğan punterà sull’immagine di un Turchia indipendente (o bifronte, secondo qualcuno) che solidamente sta nella Nato e intanto dialoga con la Russia di Putin, come avvenuto per il negoziato sul grano. Da Putin Erdoğan ha ottenuto supporto per l’approvvigionamento energetico di gas e per la costruzione di nuove centrali nucleari. Con l’Unione europea non faticherà a far valere il proprio ruolo di tappo a cui subappaltare i confini dell’Europa. Per quanto riguarda i siriani Erdoğan vuole rimpatriare almeno un milione di rifugiati ma per farlo deve prima arrivare ad un accordo con il governo di Damasco, che chiede in cambio il ritiro delle truppe turche presenti nel nord della Siria.
Sul fronte dell’immigrazione la Turchia ha già dimostrato di poter frenare la rotta balcanica (con buona pace del diritto internazionale e dei diritti umanitari) facendo pagare a caro pezzo (6 miliardi di euro) il proprio servizio. Continuerà a farlo. In cambio l’Unione europea continuerà a fingere di non vedere i diritti calpestati in Turchia. Nel suo discorso dopo la vittoria Erdoğan ha promesso di proteggere la sacralità della famiglia tradizionale, si è espresso ancora una volta contro la comunità Lgbtqia+ e ha accusato la minoranza curda di terrorismo, promettendo di lasciare in carcere Selahattin Demirtaş, ex presidente del partito filo-curdo Hdp in galera dal 2016.