La Rai manda in pezzi le destre. Titoli di coda per Giorgia e Matteo. Ira della Meloni per lo sgambetto di Lega e FI in Cda. Dai Comuni al referendum, la coalizione vacilla

A scatenare l’ira di Giorgia Meloni è stato l’accordo tra la Lega e FI che ha portato all’estromissione di Giampaolo Rossi dal Cda Rai.

La Rai manda in pezzi le destre. Titoli di coda per Giorgia e Matteo. Ira della Meloni per lo sgambetto di Lega e FI in Cda. Dai Comuni al referendum, la coalizione vacilla

Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei: il proemio dell’Iliade si presta perfettamente a quello che sta succedendo in queste ore nel centrodestra. A scatenare l’ira di Giorgia Meloni novella Achille contro gli alleati (?) è l’ennesimo sgarbo, dopo l’affaire Copasir che ha tenuto banco per mesi (leggi l’articolo), gli scontri sui candidati a sindaco, punzecchiature e veleni vari che certo non sono mancati da quando i sondaggi incoronano Fratelli d’Italia in perenne ascesa (ad oggi risulta essere il primo partito italiano) è l’accordo tra la Lega e FI che ha portato all’estromissione del meloniano Giampaolo Rossi dal Cda Rai (leggi l’articolo).

Per via della Scrofa questa cosa “lascia il segno” dice un peso massimo del partito. Poi è la stessa Meloni a postare sui suoi social un commento inequivocabile: “Eletti i quattro membri del Cda Rai. Intesa anti Meloni nel Centrodestra”. Non chiara, cristallina. Signa inferre! Se non un grido di battaglia poco ci manca. E ancora: “Quando l’Italia era ancora una Nazione democratica la governance dell’emittente pubblica contemplava la presenza dell’opposizione a cui spettavano la Presidenza e la presenza nel Cda.

Nell’epoca della maggioranza arcobaleno, invece, FdI viene epurata da qualsiasi rappresentanza, così che il servizio pubblico, pagato con i soldi di tutti gli italiani, sia più simile al modello cinese che a quello di una qualsiasi nazione democratica”. Rincara la dose il vice presidente della Camera Fabio Rampelli, furibondo perché per la prima volta nella storia della Rai non c’è in Cda l’opposizione. Minaccioso pure il commissario in Vigilanza Federico Mollicone che chiede a Draghi di sostituire la presidente designata Marinella Soldi con Rossi, altrimenti sarà lotta dura in Commissione.

Chi spara più in alto di tutti è però Ignazio La Russa che arriva ad invocare l’intervento del capo dello Stato Sergio Mattarella con una sorta di moral suasion e lo stesso premier, che stavolta “Non può fare come Ponzio Pilato: non possiamo aspettarci da un presidente autorevole come Draghi che si lavi le mani”. A seguire c’è la stoccata per gli alleati, o presunti tali, di Lega e Forza Italia. “Temo che non si possa trattare di cupidigia o bulimia, Dio non voglia che sia per calcolo di chi vuole la rissa nel Centrodestra”. Alla domanda se si riferisca a Salvini, il senatore di FdI risponde: “A nessuno e a tutti. Ma la prima gallinella che canterà sarà quella che ha fatto l’uovo”. E questo, c’è da giurarci, è solo l’inizio.

IL DISPETTO A URSO. La frattura nella coalizione però è nei fatti. La difficoltà con cui si è arrivati a scegliere i candidati alle amministrative, con la designazione di Bologna tutt’ora sospesa, è stata l’ultima di una serie di spie. Dal referendum (FdI non raccoglie le firme ed è in dissenso su alcuni quesiti) alla presidenza del Copasir (Salvini non ha ancora designato i due componenti della Lega dopo le dimissioni forzate per sostituire il leghista Volpi con il meloniano Urso), il clima è da guerra civile.

Qualche parlamentare rubato da una parte e dall’altra e il gelo nelle dichiarazioni di tutti i giorni lasciano intuire che la spaccatura non è di circostanza. Giorgia scegliendo di stare all’opposizione sta lucrando consensi a rotta di collo, e Matteo non ha altra scelta che accumulare potere fin quando non si andrà a votare. Se la data sarà nel 2023 Fratelli d’Italia potrebbe arrivare alle urne logorata e senza tanti supporter che oggi si stringono nel carro in cerca di qualche strapuntino di potere.

IL RINFORZINO. Non è formalmente a destra, ma in molti fatti sì, Matteo Renzi manda un altro segnale all’omonimo leader del Carroccio. Due suoi fedelissimi, i deputati Raffaella Paita ed Ernesto Carbone hanno firmato i referendum proposti da Radicali e leghisti per riformare la Giustizia. Una mossa che serve essenzialmente per rallentare la riforma Cartabia, e che però lega ancora una volta di più i due Mattei.