12 novembre. Il valico di Zikim è stato riaperto per far entrare aiuti umanitari nel nord della Striscia. Israele lo definisce un segnale di fiducia, ma nello stesso momento riprendono i bombardamenti su Beit Lahiya e Jabalia. Secondo la BBC, oltre millecinquecento edifici sono stati demoliti durante la tregua. La pace, nei comunicati, resta un verbo al futuro.
L’Unicef denuncia un milione di siringhe bloccate ai valichi e cinquemila bambini in attesa di cure. A passare sono solo i carichi “approvati”, mentre Singapore invia cento protesi per amputati: un gesto simbolico in un sistema sanitario che non riesce più a operare. La retorica della ricostruzione arriva prima della possibilità di curarsi.
Intanto Israele approva una legge che consente di oscurare media stranieri e chiudere redazioni considerate “ostili”. Gaza resta sigillata anche per l’informazione. Fnsi, Ordine dei Giornalisti e Movimento Giustizia e Pace chiedono all’Europa di intervenire: quasi trecento reporter palestinesi sono stati uccisi dall’inizio della guerra. Alessandra Costante avverte: «Non vogliamo colonizzare la notizia, vogliamo verificarla».
In Cisgiordania, coloni mascherati attaccano villaggi nell’area di Tulkarem. L’esercito parla di episodi “intollerabili” che “minano la stabilità”. La stessa parola che il G7 in Canada usa per definire la regione, mentre Il Cairo e Ankara discutono di una forza di stabilizzazione. Tajani rivendica il ruolo dell’Italia nella ricostruzione, ma sul terreno la tregua continua a produrre macerie.
In Israele esplode la polemica per la chiusura della radio delle Forze armate decisa dal ministro Katz, mentre Trump scrive a Herzog chiedendo la grazia per Netanyahu. Nella grammatica politica degli annunci la pace è un titolo, non una condizione. Sul campo, invece, la tregua si misura nei silenzi, nei varchi selettivi e nelle voci che non possono entrare.