Salvagente per le banche. Tra azionisti e correntisti alla fine paghiamo noi. Via alla norma che vuole evitare i crac. Garantito chi ha meno di 100 mila euro

Alla fine, dopo mesi di tira e molla, il Governo ha approvato il decreto sul salvataggio delle banche. Si tratta, utilizzando il gergo anglosassone, del cosiddetto “bail in”. La misura era stata chiesta dall’Europa. Ma facendo un po’ di conti c’è sempre il rischio che al salvataggio di un istituto prtecipino anche i cittadini, soprattutto se azionisti, obbligazioni e correntisti oltre una certa soglia. Con il “salvataggio interno” metteranno mano al portafoglio, per coprire le perdite di una banca sull’orlo della crisi, in primo luogo gli azionisti, poi se necessario gli obbligazionisti e i titolari di depositi, ma sopra il limite di 100mila euro. Solo alla fine, a questo punto, si apre la possibilità di un intervento pubblico, con i soldi di tutti i contribuenti.

LA SPIEGAZIONE
In particolare la direttiva, ha spiegato il Tesoro, prevede misure per prevenire l’insorgere di crisi e misure di intervento precoce idonee ad affrontare con successo casi di banche in difficoltà, misure preparatorie perché una eventuale risoluzione possa essere condotta rapidamente e con i minimi rischi per la stabilità finanziaria del Paese, strumenti di risoluzione comuni a tutti i Paesi membri per risolvere efficacemente le crisi in alternativa alla liquidazione quando la crisi stessa potrebbe avere un impatto sull’intero settore e infine l’istituzione del Fondo nazionale di risoluzione. Il bail-in è uno strumento di risoluzione che si attiva qualora l’azzeramento del capitale non sia sufficiente a coprire le perdite. Questo strumento consente alla Banca d’Italia (l’autorità nazionale di risoluzione) di svalutare alcune categorie di crediti vantati da terzi nei confronti della banca, così come di convertire quei crediti in azioni al fine di soddisfare esigenze di ricapitalizzazione. Con le nuove norme nessun creditore può subire perdite maggiori di quelle che avrebbe sopportato in caso la banca fosse stata sottoposta a liquidazione coatta amministrativa secondo la normativa oggi in vigore. La direttiva invece esclude esplicitamente alcune categorie di crediti escluse dal contributo alla risoluzione della crisi bancaria. Ad esempio, oltre che i depositi protetti (cioè i depositi ammessi al rimborso da parte di un sistema di garanzia dei depositi, fino a 100.000 euro), sono escluse le passività garantite, le disponibilità detenute dalla banca per conto del cliente (per esempio il contenuto della cassetta di sicurezza o i titoli depositati in un conto apposito), o i crediti da lavoro o dei fornitori.

I MARGINI
L’autorità di risoluzione può escludere altre categorie di crediti, al ricorrere di determinate condizioni secondo una valutazione da fare caso per caso. Il coinvolgimento nel processo di risoluzione di quei crediti non esclusi dalla direttiva è applicato alle varie categorie secondo un ordine preciso, che prevede prima l’azzeramento del capitale e delle riserve (con perdite per gli azionisti) e poi (se necessario) la svalutazione o conversione degli strumenti aggiuntivi di capitale e delle altre categorie di debito subordinato. Successivamente la svalutazione o conversione si applicherebbe ai crediti non subordinati e non garantiti.