Chiara Saraceno difende Maria Elena Boschi: “Essere donna l’ha danneggiata”. Ma sulle politiche di genere è stata un disastro. Il femminismo? “Serve, oggi più che mai”

Chiara Saraceno difende Maria Elena Boschi: "Essere donna l'ha danneggiata". Ma sulle politiche di genere è stata un disastro

Zero spaccato. Anzi “non pervenuto”. La sociologa e filosofa Chiara Saraceno non usa mezzi termini nel bocciare quanto fatto, o meglio non fatto, dagli ultimi Governi, prima a guida Renzi e poi Gentiloni, per le pari opportunità, che “sono completamente sparite dall’agenda politica”. Ecco perché sembra quanto mai “pretestuoso” l’alibi sul caso Etruria fornito da Maria Elena Boschi e dallo stesso Matteo Renzi, secondo cui ci sarebbe un “attacco alle donne”. “Certo – precisa però la Saraceno –  il fatto che Boschi sia una bella donna ma anche intelligente e preparata, non le ha sicuramente giovato in un clima molto maschilista come quello italiano”.

In che senso, professoressa?

Lei e Boldrini sono stati oggetto di attacchi indecorosi in questi anni in quanto donne: nella loro dimensione sessuale sono state aggredite a più riprese. E sono solidale con la sottosegretaria da questo punto di vista. Però credo che, detto questo, la questione delle banche prescinda totalmente. Queste dichiarazioni hanno un che di pretestuoso: Boschi certamente non è stata limpida.

E per questo è stata messa sulla graticola.

Sì, però mi faccia dire: trovo anche che la questione di Banche Etruria sia stata utilizzata come mezzo più facile per attaccare lei e il Pd. Da questo punto di vista credo siano attacchi strumentali. Sono rimasta più che altro sconcertata dal fatto che dalle audizioni della commissione Banche sia venuto fuori molto chiaramente che i due organismi che sarebbero deputati alla sorveglianza bancaria (Consob e Bankitalia, ndr), non abbiano vigilato. E questo mi sembra molto più grave. E invece sono stati tutti lì tarantolati a vedere se Ghizzoni confermasse o no quanto scritto da de Bortoli.

Secondo lei, dunque, c’è un che di strumentale?

Assolutamente sì. Trovo questo accanimento disdicevole. E soprattutto pare un velo di nebbia sulle problematiche sostanziali della questione: parliamo di due organismi che non hanno vigilato. Non voglio dire ci sia stata malafede, ma inefficienza. Questo sì. Viene da pensare che perlomeno servano poco. Adesso siamo tutti bloccati intorno al caso Banca Etruria, che poi è stata comunque commissariata. Quindi non si capisce nemmeno di cosa abbia giovato Boschi. Da questo punto di vista i conflitti d’interessi sono altri.

Boschi, dunque, non ha sbagliato?

Diciamo che avrei preferito si fosse dimessa sulla riforma costituzionale, ma perché lì ha perso. Sarebbe stato un gesto molto signorile e anche politicamente efficace.

La sottosegretaria, come si sa, è la responsabile delle pari opportunità. A riguardo, dopo cinque anni di Governo Pd, qual è il suo giudizio?

Qui la questione cambia: il mio giudizio è profondamente negativo. Verrebbe quasi da dire non pervenuto. Non mi fraintenda e lo dico tra mille virgolette: se non ci fosse la violenza sulle donne che fa sì che ogni tanto ci si mobiliti, sarebbe il nulla totale.

Addirittura?

Negli ultimi anni le pari opportunità sono sparite completamente. Lo dico con profonda tristezza, da vecchia femminista: che ci sia stato un momento, con Renzi, di massimo numero di donne al Governo e massimo di silenzio sulle politiche di genere, è pesante. È molto pesante. È come se decenni di lotte, di denunce, di proposte, siano scomparse.

Che sia avvenuto con un Governo di centrosinistra, poi, è tutto dire…

Ma non è solo questo. Dinanzi a determinate politiche, come l’Opzione Donna che di fatto è stato un ricatto fatto a donne disperate perché sarebbe stato molto meglio portare avanti politiche di contribuzione aggiuntiva, non solo le ministre, ma nessuna delle parlamentari o delle sindacaliste ha parlato o detto qualcosa.

Quindi possiamo parlare di totale disinteresse?

L’unica cosa che resta sono le violenze sulle donne che di fatto nemmeno riusciamo a contrastare. Per il resto, è come se la denuncia della violenza fosse un po’ un alibi per coprire tutto ciò che non si fa. Ma Boschi ha anche altre responsabilità…

Cioè? Quali?

Io ho fatto parte del portale nazionale Lgbti che è stato seguito prima dall’allora sottosegretario Claudio De Vincenti. Una cosa faticosissima che, però, siamo riusciti a portare a termine. Eppure alla fine non c’è stata una conferenza stampa di presentazione, niente. Nonostante la Boschi, appena arrivata, avesse promesso un lancio, una sponsorizzazione. Quando ho chiesto conto, mi ha detto: “Eh lo so che lo dice sempre lei”. Fine.

Anche queste sono pari opportunità, però.

Esattamente. Quel che resta sono le vittime. Di donne si parla solo in quanto vittime, mai come soggetti attivi e da tutelare.

C’è da dire che questa incuria dura da anni, è un fenomeno che non nasce ora. Quali le ragioni secondo lei?

Innanzitutto economiche. Fare delle politiche serie, comporta inevitabilmente un costo. Mi ricordo che quando era ministro Elsa Fornero, chiedevo conto anche a lei. E lei mi diceva chiaramente: “Non ci sono soldi”. Non è un caso che ci sono punti della Costituzione che sul lavoro e sulla parità di genere sono chiari, ma poi concretamente non trovano spazio nelle leggi ordinarie. Sono un lusso: se ci sono soldi si fanno, altrimenti è un privilegio che non ci si può permettere. Non sono garantite. E poi c’è un problema culturale, per cui il lavoro femminile viene avvertito come un di più. Pensi che la maggior parte degli italiani ritiene che, in caso di crisi, bisogna agevolare il lavoro maschile su quello femminile.

Un problema radicato questo, secondo lei?

Guardi, la questione è anche di ricambio generazionale. Per la mia generazione, avendo vissuto un passaggio più evidente, la discriminazione di genere era più evidente. Oggi, invece, è più mascherata: le ragazze vivono in un quadro dove apparentemente c’è uguaglianza. Solo quando ci si sbatte il naso, ci si accorge della disparità. Anche alcune conquiste che sono state fatte, sono intese in modo sbagliato.

In che senso?

Prenda la questione delle quote: la normativa è una normativa anti-monopolistica, è una normativa di riduzione del potere degli uomini. Però nel dibattito pubblico si parla di quote rosa, non di monopolio blu.

E la politica, in questo, ha di fatto smesso di avere un ruolo?

Non è un caso che non ci siano opinion leader donne, tranne Meloni. E questo bisogna riconoscerlo. Quella di Renzi che mise tante donne nel suo Governo fu una grande mossa da un punto di vista comunicativo. Poi, però, si è perso. Anche perché poi ci vogliono i fatti, che sono mancati: non è che se poi metti donne nell’Esecutivo, hai risolto tutti i problemi.

Vista la situazione e il vuoto culturale e politico, oggi ha ancora senso parlare di femminismo?

Certo. Ci vuole un femminismo, ma un femminismo serio come occhio attento nella denuncia, non come movimento che veda la donna come una parte. Un femminismo serio dovrebbe analizzare e denunciare anche le crescenti disuguaglianze tra donne. Anche per l’assenza di politiche serie: se non ci sono servizi e via dicendo, è inevitabile che tra le donne del Nord e quelle del Sud ci sia una disuguaglianza molto forte, molto maggiore rispetto a quella esistente tra gli uomini. Sia in ambito economico che per i livelli di istruzione.

Nel suo ultimo libro, L’equivoco della famiglia, lei ha esaminato come sia appunto cambiata la famiglia e come oggi non si possa più parlare semplicemente di padre, madre, figlio e figlia. Secondo lei perché la politica non riesce a stare al passo con tali cambiamenti?

Guardi, il terreno della famiglia è sempre stato in Italia un terreno minato. Non a caso in Europa siamo il Paese più debole nelle politiche per la famiglia.

Per quale ragione?

Per due motivi, essenzialmente. Innanzitutto non si pensa che alla famiglia si debba dare il sostegno, ma che la famiglia sia il sostegno. Mi ricordo che negli anni ’70 in un editoriale definii la famiglia la “gamba nascosta del welfare”. Ora direi che è la “gamba esplicita”. Si scarica sulla famiglia ogni responsabilità. Inevitabile poi che si crei un circolo vizioso per cui i ragazzi lasciano molto tardi i nuclei familiari.

E il secondo?

Le racconto un aneddoto: ai tempi del primo Governo Prodi, ero consulente del ministro Livia Turco. In quella veste coniai l’espressione “politiche di sostegno alle responsabilità familiari” per tentare di aggirare l’ostacolo della parola “famiglia”. Purtroppo da allora poco è mutato: nonostante i cambiamenti con le coppie omosessuali, conviventi e non conviventi e via dicendo, la politica è da sempre in ritardo nella definizione della parola “famiglia”. Non è un caso che ancora nel 2017 con la legge Cirinnà si sia preferito togliere la parola “famiglia”. Toccare la famiglia significa ogni volta chiedersi “qual è la famiglia? Qual è quella “buona”? E allora le soluzioni proposte dalla politica si fermano ai bonus perché non si è capaci di cogliere e comprendere i cambiamenti. Ci si ferma ai bonus senza trovare soluzioni a lungo raggio, sprecando di fatto soldi.