Serve il coraggio di cambiare. Ora spazio alla competenza. L’analisi del sociologo Cocozza: “La sfida è puntare soprattutto sulle risorse culturali”

Parla il sociologo del lavoro Antonio Cocozza

“Bisogna avere il coraggio di cambiare, altrimenti si rischia di stare fermi mentre tutti gli altri corrono”. Ne è convinto il professore Antonio Cocozza, docente di Sociologia dei processi economici, del lavoro e delle organizzazioni all’Università Roma Tre e alla Luiss. Che fa un’analisi a tutto tondo di quello che sta accadendo nel Governo del cambiamento e delle ripercussioni nel mercato del lavoro.

Stiamo assistendo a nomine in posti di rilievo che sembrano, almeno in apparenza, delle novità, dall’ad delle Ferrovie al direttore del Tg1. Quale effetto sta creando tutto ciò? E soprattutto si scommette sul nuovo o si stanno facendo, invece, scelte sempre più politiche?
“Negli ultimi tempi con questo Governo, ma anche con quelli precedenti, abbiamo assistito a nomine che non sono basate sul principio della competenza, ma piuttosto della fiducia o peggio dell’appartenenza politica, fino ad arrivare a situazioni in cui ci sono manager che fanno parte di un contesto politico ma che non hanno nessuna competenza professionale specifica o se c’è è limitata. Quindi, non rappresentano un buon esempio perché l’idea più diffusa è che solo così si può trovare lavoro”.

Però se si fanno scelte di questo tipo la meritocrazia va in secondo piano. E passa il messaggio che il merito non venga riconosciuto.
“Purtroppo è così e ne sono convinti soprattutto i giovani che spesso emigrano all’estero. Ci sono pure esempi positivi, ma in generale il merito non è la stella guida nei rapporti di lavoro. Bisognerebbe invertire la rotta intervenendo a più livelli, a partire dalla scuola fino all’università. L’unica cosa da fare è puntare sulle competenze tecniche, professionali e relazionali. Qui giocano un ruolo fondamentale lo Stato e le politiche attive del lavoro”.

E’ evidente una resistenza al nuovo nel mondo del lavoro. Cosa ne pensa?
“E’ esattamente così. Ma innovare è un obbligo, altrimenti si rischia di rimanere fuori dal mercato del lavoro. Soprattutto le piccole e medie imprese devono acquisire tale consapevolezza e capire che è necessario fare rete. Bisogna creare sistemi aperti che riescano a dialogare”.

I bimbi che nascono oggi faranno un lavoro che non esiste. Ma è proprio il mercato del lavoro a frenare il cambiamento.
“Il cambiamento fa paura perché non si sa come governarlo. Però non possiamo permetterci di avere paura altrimenti perdiamo la bussola. Il cambiamento è un dato strutturale e culturale e i nostri limiti sono culturali. Infatti, l’Italia ha risorse tecnologiche ed economiche sufficienti, ma non ha risorse culturali adeguate. Un esempio? Non si può pensare che nessuno fa le mozzarelle o gli abiti Gucci migliori dei nostri. Dobbiamo affrontare e vincere una sfida qualitativa. Il problema non può essere soltanto quello dei costi”.

Quindi, in sintesi, il Paese vuole il cambiamento ma quando arriva il nome che cambia parte la politica della resistenza. Come si può risolvere ciò?
“Attraverso una grande responsabilizzazione a tutti i livelli. In che modo? Per esempio, creando attività condivise ma soprattutto fornendo alle persone competenze specifiche che possano consentire a chi è uscito dal mercato del lavoro di rientrare e a chi non c’è mai stato di fare il suo ingresso. Solamente così sarà possibile affrontare le sfide dentro e fuori dall’Europa. Inutile nascondere che ci troviamo di fronte a una situazione molto grave perché il Pil è fermo e in Italia non c’è una forte domanda interna e quindi non c’è sviluppo. Ecco perché il cambiamento deve coinvolgere tutti, dalle scuole alle famiglie, dal Governo ai Centri per l’impiego, tanto discussi. Se ciò non avviene si rischia davvero di stare fermi al palo. E questo non possiamo e non dobbiamo permetterlo. Le politiche attive del lavoro devono guardare all’Europa e puntare anche qui a due obiettivi imprescindibili che sono la flessibilità e la sicurezza. Soltanto in questo modo sarà possibile governare la precarietà. Il mio ragionamento cerca di interpretare anche il dato economico in una dimensione sociale. Ma è evidente che l’Italia ha grandissime potenzialità. Però ci sono due elementi essenziali che mancano: una visione strategica di dove dobbiamo andare e la capacità di fare gioco di squadra. è su questo che bisogna assolutamente intervenire”.