Spese legali per 4 milioni l’anno. Così la Rai viola il suo Codice Etico. Viale Mazzini non ha un albo aperto e trasparente. E affida maxi-consulenze a studi di avvocati esterni

Non c’è niente da fare: il cambiamento tanto auspicato in casa Rai non ha (quasi) mai fatto capolino. E, al di là di nomine più o meno legate a questo o quel partito, è la gestione della moneta sonante che pare non essere cambiata. Nonostante l’impegno dell’amministratore delegato Fabrizio Salini che, col suo nuovo piano editoriale, mira a tagliare sprechi e a razionalizzare la spesa della Rai. Già la settimana scorsa La Notizia aveva dato conto delle maxi-spese per consulenze non legate all’attività editoriale o artistica: nel 2018 parliamo di un esborso pari a 4,4 milioni di euro, in aumento rispetto al 2016 di 780mila euro circa. Ma è soprattutto sulle consulenze affidate a studi legali esterne che, pare, Viale Mazzini violi le regole.

A dirlo, in maniera chiara, è una lettera, inviata lo scorso 26 luglio a tutto il Cda (Marcello Foa compreso) dal consigliere di amministrazione Riccardo Laganà. Una lettera che, peraltro, fa seguito ad altre alle quali però nessuno ha mai risposto. Ma partiamo da principio. Il punto da cui parte Laganà è tanto chiaro quanto inquietante: non si capisce perché mai Viale Mazzini si avvalga di consulenti legali esterni, contravvenendo a quanto dicono l’Anac, il Consiglio di Stato e – udite, udite – lo stesso Codice Etico della Rai. La Tv di Stato, scrive Laganà, è qualificata come “organismo di diritto pubblico” e in tale veste “non può di certo far finta di nulla in ordine alle istruzioni che vengono impartite” da questi due organi sul conferimento di incarichi professionali a studi legali esterni che, in sintesi, sottolineano come devono essere considerati come tutti gli altri servizi e, dunque, soggetti a bandi di gara trasparenti.

Sul tema peraltro, ha avuto modo di esprimersi anche la Corte dei Conti secondo cui “gli incarichi agli avvocati aventi ad oggetto il singolo patrocinio legale, devono essere trattati come normali affidamenti di servizi, non rilevando il carattere fiduciario. Pertanto andrebbero applicate le regole in materia di selezione pubblica, e, in particolare il principio di rotazione, l’obbligo di redigere un apposito regolamento interno, il divieto di affidamento diretto”. Tali orientamenti, manco a dirlo, avrebbero dovuto comportare sin da subito il divieto di conferimento di “incarichi plurimi — in un dato arco di tempo – al medesimo fornitore, ovvero al medesimo professionista e/o al suo Studio Legale”.

E invece? E invece è “di palmare evidenza come l’attuale sistema di conferimento di incarichi a studi legali esterni (che movimenta circa 4 milioni di euro l’anno) sia in frontale contrasto con i principi di trasparenza, libera concorrenza, pari opportunità di partecipazione e rotazione sopra delineati”. A quanto pare la Rai non ha un albo aperto, finendo con l’apparire come un sistema chiuso che “avvantaggia unicamente i pochi e selezionati (non si sa come) studi legali esterni”.

QUESTIONE APERTA. E tutto questo nonostante abbia al proprio interno una propria avvocatura istituita dal Cda nel lontano 2006. I latini direbbero cui prodest? E, probabilmente, lo direbbero anche in riferimento a un altro piccolissimo rilievo. È il caso, infatti, di ricordare che, come detto, anche il Codice Etico del Gruppo Rai specifica che l’azienda “adotta processi di affidamento delle opere, forniture e servizi, sulla base e nel rispetto della vigente normativa comunitaria e nazionale in materia. I rapporti con i fornitori sono ispirati a principi di trasparenza, eguaglianza, lealtà e libera concorrenza”. Laganà ora l’ha ricordato al resto del Cda: chi di dovere lo degnerà almeno di una risposta questa volta?