Sudamerica, regimi e torture. Al via il processo a Roma. Anche italiani tra le migliaia di desaparecidos. Il ruolo della Cia in Brasile, Bolivia, Cile e Perù

di Orsetta Bellani da Chiapas (Messico)

Si apre dopodomani a Roma il processo al cosiddetto Plan Condor, in cui lo Stato italiano si è costituito parte civile. Il Plan Condor prevedeva lo scambio di informazioni e la cooperazione tra le dittature militari che governavano buona parte dei paesi sudamericani negli anni ‘70 e ‘80, con il fine di eliminare l’opposizione politica. È comprovato il ruolo dei servizi segreti statunitensi (Cia) nell’elaborazione del piano, che ha portato al sequestro, alla tortura e alla sparizione di decine di migliaia di giovani che si opponevano alle dittature, o che erano semplicemente sospettati di essere comunisti. La tortura psicologica è stata esercitata anche nei confronti dei loro famigliari, che non sapevano che fine avessero fatto i figli: molti hanno vissuto tutta la vita in attesa del loro ritorno o del ritrovamento del corpo. Corpi che, molto spesso, erano stati gettati in fondo al mare, con il ventre squarciato da una coltellata perché venissero divorati dagli squali. Secondo il geografo statunitense Kenneth Hewitt, durante gli ultimi cento anni la violenza di stato ha causato la morte di circa centosettanta milioni di persone, più di quante sono rimaste uccise in guerra nello stesso periodo. Grazie alla grande produzione letteraria, musicale e cinematografica sono noti in tutto il mondo i 30mila desaparecidos creati dalla dittatura argentina, ma la pratica era diffusa anche in altri paesi sudamericani.

Alcuni paesi, come Cile e Argentina, hanno portato avanti un doloroso cammino di elaborazione della memoria storica, avviando processi per giudicare i carnefici dei propri figli. Altri, come il Brasile, hanno invece optato per l’amnistia. “La legge di amnistia si applica solo nella giurisdizione del Brasile”, ha dichiarato il procuratore romano Giancarlo Capaldo al quotidiano argentino Pagína 12. “L’Italia non ha approvato nessuna legge che perdoni i responsabili delle sparizioni dei due cittadini italiani sequestrati in Brasile nel 1980, due vittime del Plan Condor. In Italia non siamo obbligati a perdonare i colpevoli”. In forza del principio di extraterritorialità e a seguito della denuncia dei famigliari di ventitré cittadini italiani, spariti in Sud America tra il 1973 e il 1978, nel 1998 il procuratore Giancarlo Capaldo ha aperto un’inchiesta. La procura romana si è scontrata con vari inconvenienti, causati soprattutto dalla mancanza di collaborazione da parte dei governi sudamericani, e con alcuni fallimenti: a seguito dell’ordine di arresto stabilito dal tribunale di Roma nel 2007 nei confronti di centoquaranta persone implicate nel Plan Condor, a Salerno venne arrestato l’ex militare uruaguayano Néstor Jorge Fernández Troccoli, poi rilasciato per mancanza di prove come l’ex procuratore militare cileno Alfonso Podlech Michaud, accusato di aver fatto sparire il sacerdote italiano Omar Venturelli.

La richiesta di rinvio a giudizio, presentata da Giancarlo Capaldo al Tribunale di Roma il 31 gennaio scorso, dettaglia le torture e le violenze commesse dai militari sudamericani, molti dei quali già deceduti. Sono trentacinque le persone che verranno giudicate a partire da venerdì: due boliviani, dodici cileni, quattro peruviani e diciassette uruguayani, di un’età compresa tra i sessantaquattro e i novantadue anni. Tra loro, l’ex presidente peruviano Francisco Morales Bermúdez, l’ex dittatore uruguayano Gregorio Alvarez, l’ex capo dei servizi segreti cileni Juan Manuel Contreras e l’ex Ministro degli Interni boliviano Luis Gómez Arce, con accuse che vanno dal sequestro di persona all’omicidio multiplo aggravato. Alcuni imputati si trovano già nelle carceri sudamericane mentre altri hanno trascorso gli ultimi decenni nella completa impunità, come Ricardo Eliseo Chávez Dominguez, sessantacinquenne ex capo delle operazioni speciali dell’uruguayano Fusna (Cuerpo de Fusileros Navales), che oggi gestisce una clinica per massaggi a Montevideo, la capitale dell’Uruguay, e insegna arti marziali in una scuola.