Giovani disoccupati al 40%: l’unico partito in Italia con il premio di maggioranza

I 242mila nuovi posti di lavoro creati l’anno scorso sono tutto il contrario di quel successo, seppure minuscolo, che qualcuno vorrebbe farci credere

In Italia c’è una forza che il premio di maggioranza del 40% se lo prende comodamente: i giovani disoccupati. Se andassero tutti a votare si prenderebbero anche il Governo e la soddisfazione di fare qualcosa sul serio per cambiare il loro destino. A cominciare dal togliere a chi ci governa da decenni quella che persino oggi sembra una medaglia ma è una patacca. Clamorosa. I 242mila nuovi posti di lavoro creati l’anno scorso sono infatti tutto il contrario di quel successo, seppure minuscolo, che qualcuno vorrebbe farci credere. Certo, le condizioni generali del Paese non permettevano chissà quali incrementi dell’occupazione. Ma l’economia langue proprio perché non c’è il lavoro, moltissime persone non hanno nulla da spendere, i giovani non possono farsi casa e una famiglia. Dunque il lavoro è l’origine di tutto, la causa e insieme l’effetto di un disastro epocale: la condanna alla precarietà – anche del modo di pensare – di intere generazioni. Per battere questo mostro un po’ tutti i governi degli ultimi decenni hanno preso impegni solenni e tentato strade in ogni direzione.

Al principio si gettò tanto denaro a pioggia, facendo ricchi i signori industriali che la mattina parlavano di mercato in Confindustria e la sera stavano a piangere nelle anticamere dei ministri di turno per acchiappare sovvenzioni e appalti pubblici. Finiti i bilioni da gettare dalla finestra, si è tentato con la concertazione tra Stato, imprese e sindacati. Sappiamo con quali pessimi risultati. Si sono creati allora i falsi miti, come l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori (il divieto di licenziamento senza giusta causa). Un alibi perfetto per giustificare l’arretratezza del nostro sistema industriale e mandare in scena per anni il teatrino dello scontro tra associazioni d’impresa e confederali. Intanto tutto andava sempre più a rotoli e gli italiani comprendevano bene che restava una sola via d’uscita: fare sul serio quelle riforme che possano consentire alle imprese di assumere a prezzi e condizioni compatibili con il mercato reale. Possiamo girarci attorno quanto vogliamo, con trattati filosofici e studi universitari, ma stringi stringi se il lavoro costa più di quanto rende è inevitabile che le aziende lo riducano all’osso, tentino in tutti i modi di sfruttare le opportunità consentite e quelle che non lo sono. Pena la caduta della stessa attività economica, con la conseguente ulteriore perdita di posti.

Riforme obbligate – Così, dopo anni in cui i blocchi di imprese e sindacati avevano messo in stallo ogni evoluzione delle politiche del lavoro, si è aperta quasi naturalmente una falla nella diga che bloccava tutto. Una falla nella quale il governo di Matteo Renzi non ha fatto altro che infilarsi, facendo propria una grandissima opportunità: smuovere una volta per tutte il pantano dell’occupazione. Tanto era solenne questa possibilità, che il pacchetto di riforme affidato al ministro Giuliano Poletti fu definito Jobs Act, scimmiottando la legge di riferimento in Gran Bretagna, da molti anni con un mercato del lavoro dinamico e in crescita. Una montagna che gli ultimi dati dell’Istat ci confermano aver partorito appena un topolino. I nuovi posti in più sono infatti nulla rispetto a quello che sarebbe potuto essere se questo Paese avesse affidato la gestione del lavoro a princìpi davvero liberali, facendo appena tre cose.

Maledetto cuneo – La prima: abbattere sul serio – e non con i soliti ritocchi dello zerovirgola – il cuneo fiscale e contributivo che rende già da solo fuori mercato gran parte delle possibili assunzioni. Certo, qui qualcosa è stato fatto, con sconti e decontribuzioni che però sono durate poco. Le aziende che erano pronte ne hanno usufruito, anche a piene mani, ma non si è dato il tempo a nuovi soggetti di affacciarsi sul mercato e poter correre con gli stessi vantaggi accordati a chi c’era prima. Dunque, per capirci: meno tasse. Seconda cosa: la signora Camusso – intesa come parte per il tutto dei nostri sindacati – si rassegni: nella situazione data i contratti nazionali più che un baluardo insormontabile contro gli abusi a danno dei lavoratori sono il reticolo dentro il quale ogni giorno muore la possibilità di creare nuovi posti. Senza essere Alice nel Paese delle meraviglie e dunque sapendo bene che negli spazi contrattuali vuoti ci saranno sempre dei furbastri, non c’è dubbio che i vantaggi di una deregulation sarebbero di gran lunga maggiori. Una certezza che nasce dalla assoluta convinzione che gli imprenditori italiani non sono tutti banditi e solo per il fatto che alzano ogni mattina una saracinesca sempre più pesante andrebbero premiati e ringraziati come nessuna istituzione in questo Paese ha mai fatto. Questi imprenditori, soprattutto quelli piccoli e medi (che non a caso hanno un bilancio positivo nelle assunzioni di nuovo personale, come segnala l’ultima indagine della Cna) i dipendenti capaci se li coccolano. L’ultima cosa, ma non ultima per importanza, è rendere giusta la giustizia sul lavoro. Non distragga il gioco di parole, ma fin quando i lavoratori avranno sempre ragione le aziende ci penseranno a lungo prima di assumere. E il nuovo lavoro potrà attendere.