Terno secco di Alfano

di Lapo Mazzei

Lo scorso 18 gennaio la cronaca politica registrava con un certo entusiasmo la piena sintonia fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sulle riforme. A certificarla, dopo un vertice di oltre due ore nella sede del Pd al Nazareno in via Sant’Andrea delle Fratte, in centro a Roma, fu lo stesso segretario democrat, parlando di un accordo «per consolidare i grandi partiti». Il riferimento era alla legge elettorale. Il segretario di Ncd, Angelino Alfano, reagì alla quella piena sintonia da par suo: «Si scordino di fare la legge elettorale senza di noi». Ecco, tutto ciò non è avvenuto un secolo fa, ma ieri. E oggi, con il varo del primo governo dell’era renziana, tutto ciò è ancor più vero. Il presidente del Consiglio incaricato, che avrebbe voluto far tutto secondo il proprio schema, è stato costretto ad adeguarsi a quello disposto dagli altri, da Alfano al capo dello Stato Giorgio Napolitano, che ha tenuto inchiodato sulla poltrona il premier democrat per oltre due ore. Lima, taglia, aggiungi, togli, tratta, rilancia: insomma tutti i riti della prima Repubblica sono apparsi a Renzi nel corso del confronto con l’inquilino del Colle. Riti e miti che Renzi aveva già assaggiato nella estenuante trattativa con Angelino Alfano che ha portato a casa il risultato voluto. Per certi aspetti il vero vincitore è lui. E i prossimi mesi s’incaricheranno di stabilire con esattezza quali sono i lati di questo triangolo amoroso, che si va consumando fra il Colle, Palazzo Chigi e la sede del Nuovo Centrodestra. E tanto per far capire da che parte tira il vento dei piccoli, Alfano è andato al congresso dell’Udc, mentre Renzi era a colloquio con Napolitano. «Sono abbastanza soddisfatto. Noi siamo pronti a formare una grande squadra per un grande paese che ha bisogno di grandi riforme» ha detto il riconfermato ministro dell’Interno. Quanto a Renzi, ha lasciato cadere ogni velo polemico: «Il nostro rapporto anche dal punto di vista personale è ottimo e credo ci siano le condizioni per il nuovo governo».

Fuori Bonino e Mauro
Già il governo. Della forte trazione Pd con marca renziana si sapeva come si sapeva del colpo gobbo degli alfaniani, ma il botto è stato l’aver fatto fuori la Bonino e Mauro per far posto alla Madia e alla Boschi: dall’usato sicuro al salto nel vuoto dell’inesperienza priva di sapienza. Scendendo nel dettaglio appare evidente che la squadra “snella” di 16 ministri, tra cui otto donne, da corso all’idea del nuovo, ma non da garanzie. L’esecutivo, infatti, nasce sulle ceneri del governo Letta: ne eredita sostanzialmente la stessa maggioranza ma si ritrova con in più una certa apertura di credito da parte di Forza Italia, che ancora ieri ha ribadito che resterà all’opposizione, ma che in questi giorni tutto sta facendo fuorché opposizione dura al segretario del Pd.

Nessun vicepremier
I nuovi ministri giureranno questa mattina nelle mani del presidente della Repubblica. L’esecutivo, poi, dovrà ora superare lo scoglio del voto di fiducia, ma sistemate le caselle dei ministeri e ricevuto il benestare del Quirinale, il passaggio parlamentare non dovrebbe riservare particolari sorprese. La prima parola spetterà lunedì all’Aula del Senato, dove la maggioranza è più risicata; poi martedì toccherà alla Camera, per un passaggio perlopiù formale visti gli ampi numeri su cui può contare il solo Pd.
Ieri è stato lo stesso premier incaricato a sdrammatizzare l’attesa con un tweet: “Arrivo, arrivo! #lavoltabuona”. Il colloquio con il capo dello Stato, durato più di due ore e mezza, è servito proprio a convincere Re Giorgio sulla validità dei nomi proposti. Alla fine però tutte le caselle sono state riempite e ogni mugugno tra le forze di maggioranza è stato sopito. A festeggiare è soprattutto il Nuovo Centrodestra, che ancora giovedì puntava i piedi e parlava di «criticità nel programma». Rinunciando alla vicepresidenza, Alfano ha ottenuto la conferma dei suoi tre Ministeri e soprattutto una sorta di clausola di salvaguardia che subordini le nuove elezioni non solo ad una nuova legge elettorale ma anche alla riforma del Senato, evitando così il rischio di un’accelerazione verso il voto una volta dato il via libera all’Italicum (che ai centristi non piace). Un bel colpo gobbo.