Dopo mesi di tregua, tra Thailandia e Cambogia torna a riaccendersi il conflitto. Ormai da due giorni lungo il confine orientale i due eserciti sono tornati a sparare colpi di artiglieria, con l’accordo di de-escalation firmato il 26 ottobre alla presenza di Donald Trump – che se n’è vantato in mondo visione – sembra già un ricordo. La ripresa degli attacchi – raid aerei, colpi di artiglieria, scaramucce tra pattuglie – ha messo fine a mesi di relativa calma in una delle dispute più antiche del Sud-Est asiatico.
Di ora in ora il bilancio umano si fa più pesante. Ai quattro civili cambogiani e al soldato thailandese uccisi nei primi scontri, si aggiungono altre due vittime a Banteay Meanchey: secondo Phnom Penh, l’esercito thailandese avrebbe aperto il fuoco poco dopo mezzanotte, centrando due persone che stavano percorrendo la strada nazionale 56. Una drammatica sequenza che porta a sei il totale dei civili cambogiani morti. I feriti, da entrambe le parti, sono molti di più. Intanto decine di migliaia di residenti hanno lasciato le loro case in fretta, stipati su qualsiasi mezzo disponibile, dalle moto ai camioncini carichi all’inverosimile.
Tensione al confine: vacilla la tregua che Trump ha fatto siglare tra Thailandia e Cambogia
Bangkok e Phnom Penh continuano a rimpallarsi la responsabilità della crisi. La Thailandia accusa l’esercito cambogiano di aver aperto il fuoco nella provincia di Ubon Ratchathani, costringendo alla risposta con raid mirati contro obiettivi militari. La versione cambogiana capovolge la prospettiva: sarebbero state le forze thailandesi ad avviare gli attacchi nelle province di Preah Vihear e Oddar Meanchey, mentre le truppe locali avrebbero mantenuto la disciplina del cessate il fuoco. Una ricostruzione che è stata però corretta dal potente ex premier Hun Sen: dopo ore di silenzi e smentite, ha confermato che Phnom Penh ha reagito, spiegando che le sue forze hanno “combattuto in tutti i punti” in cui erano state colpite.
Il clima politico non aiuta. Il premier thailandese Anutin Charnvirakul non esclude “ulteriori operazioni militari in caso di necessità”, mentre il leader cambogiano Hun Manet rivendica il diritto a difendere la sovranità del Paese. La comunità internazionale guarda con apprensione: le Nazioni Unite sollecitano la fine immediata delle ostilità, l’Unione Europea chiede un ritorno agli impegni presi in ottobre, quando le due capitali avevano promesso di risolvere la disputa “in modo pacifico”.
La sensazione, ora, è che la tregua stia scivolando via più velocemente di quanto fosse stata costruita. E lungo quel confine irrequieto, dove ogni collina è stata contesa almeno una volta nella storia, l’idea di un equilibrio duraturo sembra tornare a vacillare.