Trentasei anni per una sentenza

di Nicoletta Appignani

Ben 45 anni per ottenere una pensione di invalidità. Una “giustizia lumaca”, che dura più della vita di un uomo, in questo caso quella di Vincenzo Carbone: uno dei tanti reduci della seconda guerra mondiale che dopo anni di sacrifici e prigionia chiedeva allo Stato un risarcimento. Un uomo che è morto dopo quasi 20 anni dall’inizio della causa. Senza che ancora ci fosse una sentenza.

La storia
Carbone era un giovane bracciante di San Martino di Taurianova, un paese in provincia di Reggio Calabria. Un uomo, che come molti della sua epoca, ha combattuto nella seconda guerra mondiale. Nel 1941, dopo un periodo di prigionia, venne ricoverato in un ospedale militare ad Alessandria d’Egitto e fu lì che mostrò i primi segni di squilibrio: perdita della memoria, disorientamento, disturbi della percezione temporale.
Dopo essere stato internato in un campo di concentramento in Sud Africa, venne poi trasferito a Londra e ricoverato in un ospedale militare, il Western Hospital. Una lunga odissea che si concluse finalmente nel 1946, quando Carbone venne rimpatriato in Italia. Ma, al suo ritorno a casa, l’uomo è totalmente irriconoscibile: la guerra lo ha fatto impazzire.
Per anni i familiari cercano di dissimulare il suo stato e addirittura organizzano per il figlio un matrimonio con una ragazza del posto, sperando che questo possa essergli di conforto, che possa in qualche modo guarirlo. Ma Carbone non dorme più, non riesce neanche a lavorare. Vive nel terrore ed a volte è preda di attacchi di panico incontrollabili.
E così la famiglia è costretta ad affrontare la situazione. Sono gli anni Sessanta quando vengono avviate le pratiche per il riconoscimento della pensione di invalidità bellica. Ma è già tardi.

I tempi burocratici
Nel 1969 il Tribunale di Reggio Calabria ordina “l’ammissione” di Carbone in un manicomio. E a questa, in seguito alla chiusura della struttura, segue una lunga serie di ricoveri coatti in vari reparti psichiatrici.
Nel frattempo però i medici militari che visitano l’uomo, pur riconoscendolo “schizofrenico” e “affetto da nevrosi ansiosa”, negano il legame tra il suo stato psicologico e i traumi della guerra. Non ci sono, infatti, documenti che attestino i suoi ricoveri in Africa e a Londra. Quei racconti potrebbero essere soltanto vaneggiamenti. Per questo la Direzione generale delle Pensioni di guerra rigetta le richieste di rimborso inoltrate della famiglia.
Così si arriva in Tribunale e alla fine, ma solo dopo anni, i figli di Carbone riescono a trovare alcuni documenti sanitari del periodo di prigionia dell’uomo. Pochi stralci delle cartelle cliniche che costituiscono la prova richiesta per accedere alla pensione di invalisità.
Ma anche qui i tempi burocratici sono troppo lenti perché Carbone possa trarne beneficio.

36 anni per una sentenza
La richiesta viene inoltrata al Tribunale nel 1968.
E la Corte dei Conti di Catanzaro emette la sentenza nel 2004. 36 anni dopo l’inizio della controversia
e 19 anni dopo la morte di Vincenzo Carbone. L’amarezza, per la famiglia, è doppia: il trattamento pensionistico, infatti, non viene neanche riconosciuto. Ma Antonino Carbone, il figlio di Vincenzo, non si arrende. Per questo, con i suoi fratelli, si rivolge allo studio dell’avvocato Claudio De Filippi, il quale deposita un ricorso alla Corte Europea di Strasburgo sia per i trattamenti disumani e degradanti a cui era stato sottoposto Vincenzo Carbone non ricevendo la pensione, sia per l’eccessiva durata del processo. Un punto, quest’ultimo, sul quale si basa anche un altro procedimento dinanzi alla Corte di Appello di Salerno.

La legge Pinto

Quello della lunghezza dei processi, è un tema che negli ultimi mesi sta facendo molto discutere a causa della riforma della legge Pinto, introdotta lo scorso giugno dal governo Monti.
Le modifiche apportate alla legge sono infatti volte a porre un freno alle richieste di risarcimento, sempre più frequenti in un paese in cui la giustizia lenta sembra ormai un difetto strutturale.
Basti pensare che il cosiddetto “debito Pinto”, nel mese di ottobre 2012 ammontava ad oltre 300 milioni di euro.
“È incostituzionale – commenta il legale della famiglia Carbone – perchè con la nuova riforma si chiede di concludere prima un giudizio per avere la possibilità di appellarsi. Quindi ci auguriamo che nel frattempo la Corte Europea di Strasburgo intervenga e faccia finalmente giustizia”.