Un innovatore, certo. Un grande della musica contemporanea mondiale. E, forse, proprio per questo Bob Dylan non doveva vincere il premio Nobel per la Letteratura. Perché qui non è in discussione lo spessore del menestrello di Duluth (Minnesota). Con i dischi incisi negli Anni ‘60 all’inizio della sua carriera, Dylan ha aperto alla musica popolare le porte della grande letteratura, creando la figura mitica del cantautore. E da lì è stata una continua escalation, mai interrotta. Sempre in crescendo, tra sperimentazioni continue e una certezza assoluta: la commistione insanabile tra poesia e musica.
FALLIMENTO – Il problema, tuttavia, è un altro. Lontano dai meriti oggettivi di un grande come Dylan. Non bastava l’enorme punto interrogativo dopo che a vincere il premio Nobel per la Pace era stato il presidente colombiano Juan Manuel Santos, “per il duro lavoro svolto e gli sforzi risoluti nel portare la pace nel suo paese, nonostante l’accordo di pace sia stato bocciato in un referendum meno di una settimana fa” (che è un po’ come dire: ti apprezziamo per l’impegno), ora il valore del Nobel è stato in qualche modo infangato anche nel campo letterario. E non per gli avversari di Bob Dylan – i favoriti della vigilia erano Don DeLillo, Philip Roth, Haruki Murakami, Adonis e lo scrittore keniano Ngugi wa Thiong’o – quanto per la valenza che dovrebbe avere il riconoscimento, specie in un periodo nel quale l’ambito culturale parrebbe essere sprovvisto di nomi altisonanti e fari per le nuove generazioni. Detta in altri termini: far vincere il Nobel a un cantautore, equivale a dire: “mi spiace, signori e signore, nel 2016 non ci sono letterati degni di questo nome cui consegnare il premio di Stoccolma”. Insomma, la vittoria di Dylan sa di resa culturale. A meno che non si voglia essere ancora più maliziosi. Prima Santos per la Pace, ora Dylan per la Letteratura: che l’Accademia svedese stia perdendo autorità, a tal punto da dover sbaragliare le carte per far parlare di sé? Un dubbio. Fondato.
PARAGONI AZZARDATI – A prescindere da come la si veda, il nome di Dylan ha sconvolto tanti. La vittoria che non t’aspetti arriva con giusto un paio di minuti di ritardo dalla rigorosa tabella di marcia dell’Accademia di Svezia per l’annuncio ufficiale. “Per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”, ha dichiarato Sara Danius, segretario dell’Accademia svedese. Dylan succede a sorpresa a Svetlana Alexievich, la scrittrice russa vincitrice nel 2015 e diventa sostanzialmente il primo cantautore a vincere il premio Nobel. C’è però da dire che il nome di Dylan era stato già avanzato in passato. Venti anni fa, nel 1996, fu indicato all’Accademia Reale Svedese come meritevole del prestigioso riconoscimento dal professore Gordon Ball, docente di letteratura dell’Università della Virginia. A quella prima candidatura se ne aggiunsero altre da studiosi americani di importanti università Usa, ottenendo anche l’appoggio del poeta Allen Ginsberg, il cantore della Beat generation. All’epoca Ball spiegò che Dylan era stato proposto “per l’influenza che le sue canzoni e le sue liriche hanno avuto in tutto il mondo, elevando la musica a forma poetica contemporanea”. Quest’anno, però, era dato dai bookmaker 16/1, anche se a fino a poche settimane fa il premio valeva 50 volte la scommessa. E invece è stato proprio lui a vincere. “Il suo è uno straordinario esempio su come creare eccellenti rime mettendole insieme in ritornelli, oltre al suo geniale modo di pensare”, ha spiegato la Danius rispetto a chi le chiedeva motivazioni più specifiche per il premio dato per la prima volta ad un’autentica popstar. “Se andiamo indietro di migliaia di anni, scopriamo che i testi di Saffo e Omero sembrano essere stati pensati per essere eseguiti. Lo stesso accade per i testi di Dylan. Oltre al fatto che continuiamo a leggere Saffo e Omero”. In tutta sincerità, paragone azzardato. Difficile da sostenere anche per i più incalliti fan di Bob Dylan.