L’Italia è un Paese di bed&breakfast. Senza una politica industriale

Politica industriale, Renzi non controlla le grandi aziende di Stato e i boiardi. E ascolta solo Marchionne, Costamagna e Gutgeld

L’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, che annuncia un ambizioso programma di produzione elettrica con il fotovoltaico, alla faccia dell’Enel. Francesco Starace, Ad del colosso elettrico, che si butta nella fibra ottica e fa concorrenza ai privati di Telecom Italia. Ferrovie dello Stato che, anziché scorporare la rete dal servizio viaggiatori e marciare più spedita verso la privatizzazione promessa, si lancia in un’improbabile fusione con l’Anas per dare vita a una centrale appaltante da far tremare i polsi. Finmeccanica che gira il mondo a vendere armi in totale autonomia e che ha appena piazzato una fornitura di Eurofighter al Kuwait, Paese sospettato non solo dagli Stati Uniti di fare il doppio gioco con l’Isis. L’Ilva espropriata alla famiglia Riva e affidata a commissari che non ne vengono a capo e aspettano il cavaliere bianco straniero. Tutte facce di una stessa medaglia, la totale assenza di una politica industriale comprensibile. Come se un Paese che è ancora miracolosamente l’ottava economia del Pianeta potesse campare di agricoltura e turismo.

ORDINE SPARSO – A due anni dalla tornata di nomine nelle principali aziende pubbliche, voluta da Renzi all’insegna del cambiamento e delle quote rosa, la sensazione è che il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, sia totalmente tagliato fuori, e che più o meno lo stesso valga per il ministero dello Sviluppo economico, dov’è appena arrivato Carlo Calenda. Ma anche Palazzo Chigi controlla poco le persone che ha nominato. L’unico che finora ha dimostrato di meritare, numeri alla mano, la fiducia accordata è il gran capo di Poste Italiane, Francesco Caio, che ha portato il gruppo in Borsa con successo. Ma la sua nomina fu voluta da Enrico Letta e Giorgio Napolitano. E Caio è rimasto molto autonomo. Stesso discorso per Mauro Moretti, spostato da Fs a Finmeccanica, che come dicono al ministero dell’Economia, “se il Governo gli dice di fare una cosa, lui fa il contrario”. All’Eni, Descalzi ha avuto un’iniziale copertura di Renzi sulle inchieste giudiziarie, ma ora la pressione delle toghe è minore e da qualche tempo il Cane a sei zampe ha ripreso a fare quello che ha sempre fatto: comportarsi come un’entità a parte. E l’intervista di ieri del suo capo al Corriere della Sera, in cui si annunciava la svolta sulle energie rinnovabili, conferma che ha mille progetti, tutti molto autonomi. Alcuni sono un’evidente sfida all’Enel, ma del resto non sarebbe la prima volta che i due colossi energetici si pestano i piedi. E poi se Renzi costringe Enel a intervenire nella partita della fibra ottica, che si vuole giocare in campagna elettorale, il segnale è che tutto è permesso.

CONSIGLIERI – Già, ma adesso che l’ex ad di Luxottica Andrea Guerra ha lasciato Palazzo Chigi, e visto che i ministri contano poco o nulla, con chi si confronta Renzi quando deve prendere decisioni di politica industriale? I maligni dicono che il suo consigliere occulto sia Sergio Marchionne, il gran capo di Fca al quale Renzi ha consentito una fuga soft dall’Italia, in cambio dell’appoggio dei suoi giornali al governo. Poi c’è l’ex McKinsey Yoram Gutgeld, di stanza a Palazzo Chigi come consigliere economico, che però è più forte sui temi macroeconomici anche se non disdegna i rapporti con le banche d’affari. Ma soprattutto c’è il banchiere Claudio Costamagna, issato sulla tolda di Cassa Depositi e Prestiti dal premier e vero depositario di tutte le (confuse) istanze di intervento statale nell’economia. La Cdp dovrebbe custodire il risparmio postale degli italiani e investire in modo prudente nelle infrastrutture. E invece rischia di diventare il bancomat del Governo, come dimostra il salvataggio di Saipem.