Una manovra smonta-promesse. Per Meloni ripartenza da brividi

Lunedì si apre il cantiere della prima manovra Meloni. L'esecutivo nudo di fronte alla realtà e ai conti in rosso.

Una manovra smonta-promesse. Per Meloni ripartenza da brividi

La fine delle vacanze estive non è facile per nessuno. E quest’anno non lo sarà neanche per la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e per tutto il suo governo. Neanche il tempo di tornare a Roma che lunedì 28 agosto l’esecutivo è atteso da un Consiglio dei ministri a dir poco complesso. Parte, infatti, la discussione con la manovra. “Complicata”, come l’ha definita il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Che ribadirà lo stesso messaggio ai suoi colleghi a Palazzo Chigi.

Lunedì si apre il cantiere della prima manovra Meloni. L’esecutivo nudo di fronte alla realtà e ai conti in rosso

Il Cdm servirà a fare il punto sulla situazione economica e sulle priorità dell’autunno. Che detto in parole più semplici, vuol dire fare i primi conti in vista della manovra. Va riconosciuto che il governo si sta muovendo in anticipo. Ma questa volta non è un buon segno. A spingere Giorgetti ad anticipare i tempi è la preoccupazione dettata da conti in rosso. Così chiederà ai ministri i risultati della revisione delle loro previsioni di spesa.

Il primo round verrà seguito da un secondo tavolo molto importante, previsto per il lunedì successivo, il 4 settembre, sempre a Palazzo Chigi: in quest’occasione Meloni incontrerà i capigruppo di maggioranza proprio per discutere della legge di Bilancio. Chiedendo unità e compattezza, ma dovendo probabilmente comunicare anche qualche brutta notizia su tagli e promesse impossibili da mantenere. I tagli, appunto: Giorgetti si attende una revisione dei conti dei ministeri per un miliardo e mezzo. Quasi scontata una netta sforbiciata alla sanità, che dovrà rinunciare ai quattro miliardi chiesti dal ministro Orazio Schillaci.

La speranza dell’esecutivo è che l’inflazione gonfi il Pil e riduca il deficit, ma anche su questo fronte l’ottimismo è contenuto. I conti, per il momento, nella loro complessità sono semplici. Al governo servono una decina di miliardi per confermare il taglio del cuneo fiscale per i redditi al di sotto dei 35mila euro nel 2024. Tra i 4 e i 6 miliardi serviranno invece per la riduzione delle aliquote Irpef da quattro a tre: stando a quanto prevede la riforma fiscale, le risorse per questo intervento dovrebbero arrivare da una revisione di detrazioni e deduzioni, ovvero dalla cancellazione di qualche bonus.

I soldi a disposizione sono pochi, a oggi meno di dieci miliardi. Giorgetti si mostra inamovibile sul rispetto del deficit del 3,7%, dato che vorrebbe inserire nella Nadef di settembre. Dovrà resistere a diverse pressioni, a partire da quelle interne alla Lega. L’altra grande incognita riguarda il Patto di stabilità europeo: in teoria dovrebbe tornare nel 2024, ma senza un accordo in autunno ci sono due ipotesi. La prima, che il governo vuole scongiurare, è un ritorno alle vecchie regole con il tetto al 3% per il rapporto deficit/Pil. La seconda è invece una sospensione di un altro anno delle restrizioni fiscali Ue. Se non dovesse arrivare l’accordo, quindi, nella maggioranza si punterebbe proprio a questa opzione, sperando poi di poter allargare la spesa ricorrendo a più deficit. Ma su questo è evidente lo scetticismo di Meloni e Giorgetti.

A rischio l’anticipo pensionistico, la rivalutazione degli assegni, il rinnovo dei contratti e il taglio delle accise

Il guaio è principalmente elettorale per le forze di maggioranza. Le promesse, sia prima delle politiche del settembre 2022 che dopo l’insediamento del governo, si sono sprecate. E rispettarle tutte è impossibile. Lo sarebbe stato anche in condizioni migliori, figuriamoci di fronte a un’inflazione che rallenta troppo lentamente e una crescita che si è già arrestata. Molte delle promesse più roboanti – pensiamo al Ponte sullo Stretto e alle pensioni – sembrano destinate a sparire dalla prossima legge di Bilancio. La prima, ricordiamo, davvero targata Giorgia Meloni.

Il capitolo più ostico è sicuramente quello pensionistico. Partiamo da chi ha meno richieste: Forza Italia. Il partito guidato dal vicepresidente del Consiglio, Antonio Tajani, chiede un innalzamento delle pensioni minime, da portare a 700 euro. Quasi impossibile e, anzi, bisognerà lottare anche soltanto per conquistare la conferma dell’assegno minimo a 600 euro al mese per gli over 75. Su questo punto, però, qualche cosa in più si potrebbe fare. Molto più difficile andare incontro alle speranze della Lega e di Matteo Salvini, che puntano su un anticipo pensionistico rafforzato con la Quota 41. Ovvero l’uscita dal lavoro con 41 anni di contributi versati, indipendentemente dall’età.

Molto più probabile, invece, una conferma della Quota 103, che finora ha ottenuto risultati molto deludenti, e dell’Ape sociale. Con una grande incognita: l’Opzione donna. Il governo Meloni ha introdotto requisiti di accesso molto stringenti e nei primi mesi del 2023 l’anticipo per le lavoratrici si è rivelato un fallimento completo. La ministra del Lavoro, Marina Calderone, vorrebbe rivedere le regole, come chiedono i sindacati e le opposizioni. Difficile tornare a quelle esistenti prima del 2023, ma forse si può sperare in una via di mezzo. Certo, parliamo di risultati ben lontani dalle promesse di Salvini in tema di anticipo pensionistico.

Di fatto, il superamento della Fornero è davvero lontano. E sulle pensioni rischia di cadere un altro cavallo di battaglia leghista: la rivalutazione degli assegni. Perché nel 2024, con un’inflazione più alta del previsto, può essere solo parziale. Come nel 2023, se non addirittura peggio. L’unica garanzia, per ora, è che verrà mantenuta al 100% per gli assegni fino a quattro volte il trattamento minimo. Anche perché l’inflazione non scende quanto si sperava e, anzi, l’aumento del costo della benzina può farla risalire.

La benzina, appunto, un’altra promessa di fede leghista: il taglio delle accise sui carburanti, tante volte invocato da Salvini, non rientra nei piani del governo. Nessuno sconto su benzina e diesel, salvo ripensamenti. Ma a rischio c’è anche altro: il Ponte sullo Stretto di Messina, che doveva ricevere un primo finanziamento da questa manovra, ma i soldi sembrano non esserci. E poi il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, che anche quest’anno può saltare per la mancanza di risorse.

E, ancora, chi si ricorda della flat tax? Dopo il mini-allargamento del 2023 è di fatto sparita dai radar, rimpiazzata da una detassazione su tredicesima e premi di produttività, insieme alla riduzione delle aliquote Irpef. Ben altra cosa rispetto alle promesse delle destre.

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