Una nuova stagione per l’Europa. L’accordo di Bruxelles come Yalta nel dopoguerra. Il via libera al Recovery Fund disegna un nuovo ordine in Ue

Non si pensi che sia esagerato paragonare il vertice di Bruxelles alla Conferenza di Yalta. Fatti salvi i diversi contorni geopolitici – a Yalta nel 1945, dopo la guerra, si decise la divisione del mondo intero tra due diversi blocchi, ciascuno con i suoi alleati e le sue zone d’influenza –, a Bruxelles è avvenuto qualcosa di simile a livello di continente europeo. In un aspro scontro durato cinque giorni e quattro notti si è bruciata la struttura della vecchia Europa: è andata in fumo, come fosse la Cattedrale di Notre Dame, quell’Unione che non ci piaceva più, che aveva dimenticato i valori fondanti dello spirito europeo e che era diventata il terreno di tecnocrazie e interessi economici. Dalle ceneri della vecchia Europa è nato – come successe a Yalta – un nuovo ordine, non mondiale ma europeo: un nuovo assetto di potere, con una chiara gerarchia delle potenze dominanti e le loro diverse zone d’influenza. L’Italia è tornata a prendere posto, insieme a Francia e Germania, nel gruppo di comando, nel quale era tanti anni fa, quando il primo nocciolo europeo si chiamava Mec e poi Cee. È un vero direttorio a tre, al quale si aggrega anche la Spagna, in posizione leggermente più defilata dell’Italia. Decisivo è stato il ruolo di Conte: ha lottato come un leone, costretto a contrastare praticamente da solo, sul piano dialettico e negoziale, i cinque Paesi “frugali” del nord, sostenuto nel numero ma non nella dialettica da una maggioranza di Paesi.

Gli argomenti sono stati i suoi; le contestazioni a Rutte sono state le sue, basate anche sulla sua ampia cultura giuridica. È stato il capolavoro di Conte: è innegabile. Alla fine ha ottenuto non i 170 miliardi della proposta inziale, ma 208,8 miliardi, una cifra che rende non più necessario ricorrere ai 37 miliardi del Mes. I cinque ribelli del nord, guidati dall’Olanda, sono stati messi in rotta, travolti e ridotti in posizione marginale. Se si adegueranno, bene; altrimenti sono condannati a coprire d’ora in avanti un ruolo periferico, ininfluente nelle dinamiche europee. L’olandese Kurt, il contestatore del nuovo ordine europeo, entra nella lista dei “cattivi” e forse la pagherà in un modo o nell’altro.

I quattro grandi d’Europa, Germania, Francia, Italia e Spagna, si riallineano per affrontare insieme il mondo difficile, globalizzato e peggiorato da una pandemia che sta cambiando – vedremo un giorno in quale misura – i parametri planetari. Fin da ora possiamo dire che la pandemia ha prodotto effetti politici ed economici impensabili solo sei mesi fa: l’Europa è passata da una previsione di crescita del 3% a una stima di decrescita del 10%; l’America per la prima volta nella sua storia è stata costretta a tagliare le spese militari per sostenere una disoccupazione superiore a quella della Grande Depressione del ’29 e una decrescita del 7% del Pil. In questo panorama ci siamo chiesti più volte se alla fine della pandemia le potenze del mondo sarebbero state ancora ordinate come nell’epoca pre-pandemica e se l’Europa sarebbe stata ancora il fulcro economico e il modello culturale del pianeta. Il rischio che il Vecchio Continente receda in una crisi inarrestabile, in una decadenza definitiva, esiste ancora. Ma adesso l’Europa ha dimostrato di voler contrastare la marea con tutte le sue forze. Reagirà, combatterà contro il declino. L’Italia di Giuseppe Conte è stata la prima ad avere una visione chiara del futuro (quando Conte disse alla Merkel: “Angela, tu parli di strumenti vecchi. Ora sono tempi straordinari che richiedono mezzi straordinari”) e per questo è ora chiamata nello Stato Maggiore di una guerra senza cannoni ma con tante possibili macerie. Una guerra che forse si può vincere, sfatando la profezia del poeta T.S. Eliot: “This is the way the wolrld ends / not with a bang but with a whimper”, “È così che il mondo muore / non con un bang ma con un lamento”.