di Gaetano Pedullà
Il cittadino comune non capisce. Ma come: le ferrovie che fanno viaggiare come profughi milioni di italiani su treni regionali da terzo mondo sono le stesse che l’anno scorso hanno fatto 380 milioni di utili? E le Poste, che se va bene ti consegnano la corrispondenza dopo una settimana, hanno tanti soldi in cassa da mettere 75 milioni su Alitalia? Mi fermo qui, perché è troppo lungo l’elenco delle aziende pubbliche che hanno rinunciato a fare decentemente il loro mestiere per limitarsi ai business migliori (le ferrovie con l’alta velocità, le poste con i servizi finanziari). Così i manager di questi gruppi sono diventati potentissimi, soprattutto di fronte a un Governo zitto nel chiedere conto dei loro disservizi, in cambio di qualche fiches da gettare sull’ennesimo salvataggio di Stato. L’investimento delle Poste in Alitalia è davvero l’ultimo cerotto pubblico, come l’ha definito il presidente degli industriali Squinzi, su un Paese malato di monopoli pubblici. Società idriche, elettriche, degli autobus e delle farmacie, delle assicurazioni e dei servizi sportivi: Regioni, Province e Comuni gestiscono migliaia di aziende locali, con casi incredibili come quelli di Roma e Milano, dove il reticolo delle partecipate è talmente fitto da far parlare di piccole Iri comunali. Ecco dov’è lo Stato che fa quello che non deve fare, proteggendosi dietro la scusa che senza il pubblico i servizi essenziali non li farebbe nessuno. Una bugia, perché ben regolamentati i privati potrebbero sviluppare e rendere competitivi molti servizi che oggi non sono efficienti. Se poi lo Stato – già gravato di un debito pubblico insostenibile – si mette a fare pure operazioni di piccolo cabotaggio come l’ultima su Alitalia, allora davvero c’è da chiedersi se vale la pena di annegare in un mare di tasse. I soldi delle Poste, infatti, basteranno a far volare la compagnia appena qualche mese. Poi saremo punto e a capo, fin quando Alitalia non sarà venduta. È questo l’intervento pubblico in economia che meritiamo?