Ursula von der Leyen, cronaca di un fallimento annunciato

Il secondo mandato di von der Leyen affonda le promesse progressiste tra accordi con Trump, deregulation e silenzi su Gaza

Ursula von der Leyen, cronaca di un fallimento annunciato

Il 28 luglio 2025 segna un punto di non ritorno per la presidenza di Ursula von der Leyen. L’annuncio dell’accordo commerciale con gli Stati Uniti, salutato da Trump come “il più grande di tutti”, ha posto fine alle ambizioni di autonomia strategica dell’Unione europea. L’intesa prevede dazi al 15% sulla maggior parte delle esportazioni dai Paesi Ue e impegni capestro per Bruxelles: 750 miliardi di dollari di energia americana, 600 miliardi di investimenti industriali negli Usa e una quantità non dichiarata di forniture militari acquistate dall’industria bellica statunitense.

Non è una politica commerciale, ma una subordinazione geopolitica. Von der Leyen, che a inizio anno aveva promesso “contromisure credibili” contro l’unilateralismo di Washington, si presenta oggi come il volto istituzionale di un’Europa che accetta le condizioni di Trump in cambio di una tregua apparente. Il Regno Unito, negoziando da solo, ha ottenuto dazi al 10%. L’Ue guidata da von der Leyen accetta il 15%, lasciando fuori dal tavolo settori chiave come il farmaceutico, l’acciaio e l’agroalimentare, quest’ultimo già in crisi in Italia.

Le reazioni sono state durissime. Il Pd – peraltro reduce dalla recente conferma della fiducia a von der Leyen al Parlamento Ue – ha parlato apertamente di “resa senza condizioni”, con Alessandro Alfieri che ha denunciato la “sottomissione a Trump”. Carlo Calenda ne ha chiesto le dimissioni. Perfino Juncker ha definito la risposta “lenta e debole”.

Green Deal, amputato per convenienza

Ma l’elenco dei flop e degli impegni traditi non finisce qui. Poi c’è il Green Deal. Era stato il fiore all’occhiello del primo mandato. Oggi è il simbolo di un’opportunità mancata. Il Green Deal europeo, definito nel 2019 “la nuova strategia di crescita” dell’Ue, è stato smontato pezzo per pezzo. Prima è caduta la direttiva sui pesticidi. Poi quella sulle dichiarazioni ecologiche, ritirata a pochi giorni dalla firma. La rendicontazione ambientale aziendale è stata drasticamente ridotta. Il divieto di vendita dei motori a combustione interna è stato annacquato. E i fondi per la tutela della biodiversità sono evaporati.

Non si tratta di semplici rinvii tecnici. È una strategia deliberata: von der Leyen ha accettato la narrazione del Ppe e delle destre europee, cancellando i riferimenti stessi al Green Deal nei documenti ufficiali. In cambio, ha ottenuto il sostegno per la propria rielezione. E ha perso il sostegno politico di chi quel progetto lo aveva voluto e costruito.

Il gruppo S&D, i Verdi, il Wwf, Oxfam, la vicepremier spagnola Teresa Ribera: tutti denunciano lo svuotamento del Green Deal come un cedimento sistemico alle pressioni delle lobby industriali e agricole. Elly Schlein ha definito la manovra “un tradimento”, chiarendo che “i nostri voti non sono garantiti”.

Dal silenzio su Gaza all’opacità del potere

La frattura con i progressisti non riguarda solo l’ambiente. La gestione della crisi a Gaza ha mostrato una Commissione silenziosa, reticente e parziale. Le uniche parole di von der Leyen – “immagini insopportabili”, “triplichiamo gli aiuti” – sono state giudicate da Oxfam e Medici Senza Frontiere “vuote”, “troppo poco, troppo tardi”. Mentre il massacro proseguiva, oltre 800 funzionari europei firmavano una lettera pubblica contro il silenzio della Commissione.

Non si tratta di una svista diplomatica, ma di una scelta. E non è la sola. Il rinvio politico della pubblicazione del rapporto Ue sullo Stato di Diritto, per evitare critiche al governo Meloni prima del voto sulla rielezione di von der Leyen, ha mostrato il volto di una Commissione piegata alla convenienza. E ancora il caso Pfizergate, con la negoziazione privata via Sms del più grande contratto vaccinale europeo, ha sancito la crisi della trasparenza istituzionale.

Anche la politica migratoria ha subito una virata netta: la narrativa umanitaria è stata abbandonata in favore di una retorica securitaria mutuata dalla destra. Von der Leyen parla oggi di “decidere chi entra in Europa”, sostenendo centri di deportazione esterni all’Ue e modelli come quello ruandese adottato dal Regno Unito.

La peggiore per i progressisti

Ursula von der Leyen è stata eletta per la prima volta nel 2019 con i voti decisivi di Socialisti, Verdi, Liberali e perfino dei 5 Stelle. Oggi, al secondo mandato, governa invece grazie ai consensi del Ppe, dei Conservatori e, di fatto, con il sostegno esterno della destra radicale. Il Green Deal, l’autonomia strategica, i diritti sociali, l’agenda migratoria: tutto ciò che rappresentava l’ambizione progressista dell’Europa è stato sacrificato per calcoli di potere.

Il bilancio è amaro. Il secondo mandato è iniziato con un trattato che vincola l’Europa all’energia americana, è proseguito con lo smantellamento delle politiche climatiche e con una gestione personalistica e opaca del potere. E continua con l’assenza di una visione etica sulla scena globale.

Von der Leyen potrebbe entrare nella storia dell’Ue non come la prima donna presidente della Commissione, né come l’artefice del Green Deal, ma come la figura che ha trasformato un programma progressista in un’operazione di sopravvivenza politica. E i partiti che ancora oggi la sostengono senza condizioni – in primis il Pd – dovranno spiegare ai propri elettori perché continuano a farlo.