di Clemente Pistilli
Vittima del dovere, servitore dello Stato a cui intitolare caserme e strade, un eroe a cui assegnare la medaglia d’oro al merito civile. Questo da ventisette anni, dal giorno in cui è stato ucciso, è per l’Italia il maresciallo della polizia penitenziaria Filippo Salsone. Un omicidio inquadrato subito dagli inquirenti e negli ultimi anni anche da un pentito di ‘ndrangheta come delitto di mafia, per punire una guardia carceraria “colpevole” di aver fatto rispettare la legge dietro le sbarre anche ai componenti dei clan. Nel momento in cui i familiari del maresciallo hanno bussato allo Stato per chiedere l’aiuto economico previsto per legge, lo stesso Stato ha però iniziato a dare battaglia per negare quello che ha sempre sostenuto, ovvero che Salsone è stato vittima delle mafie. Un braccio di ferro che va avanti da tredici anni, complicato dalla giustizia-lumaca: il Tar della Lombardia ha impiegato sei anni per emettere una sentenza con cui si è definito incompetente in materia e ha rinviato il caso al Tribunale ordinario.
Il delitto
Il maresciallo Filippo Salsone ha lavorato in diverse carceri, ma a decretare la sua condanna a morte sarebbe stata l’attività compiuta a Cosenza, dove era il braccio destro del direttore Sergio Cosmai. I mafiosi non avrebbero tollerato di essere stati costretti da quel direttore e quel maresciallo a rispettare le regole. Nel marzo 1985 venne ucciso Cosmai e l’anno dopo, il 7 febbraio 1986, Salsone. Il maresciallo cadde sotto i colpi di fucili caricati a pallettoni e ricevette un colpo di grazia alla testa, esploso con una pistola, mentre tornava a casa dei genitori a Brancaleone, un centro di 3.500 anime in provincia di Reggio Calabria. I responsabili di quel delitto, tre sicari, che all’età di 44 anni hanno strappato Salsone all’affetto della moglie Concetta Minniti e dei figli Paolo e Antonino, non sono mai stati individuati.
Gli onori
Nel 1987, un anno dopo l’omicidio, il capo della Polizia ha inserito il maresciallo Salsone tra le vittime del dovere. Dieci anni fa a Brancaleone il sindaco gli ha intitolato una strada e sei anni fa è stata dedicata al 44enne la caserma della polizia penitenziaria di Palmi. Nel 2010, infine, il presidente della Repubblica ha insignito il maresciallo della medaglia d’oro al merito civile, con la seguente motivazione: “Consapevole del grave rischio personale si impegnò con coraggio e fermezza a ripristinare il rispetto delle regole e la disciplina all’interno di alcuni istituti penitenziari, ove erano detenuti elementi di spicco delle locali cosche criminali, rimanendo quindi vittima di un vile agguato.
Lo Stato che non paga
Dopo gli onori tributati alla vittima dell’agguato, quando Concetta Minniti, Antonino e Paolo Salsone, nel 2000, hanno chiesto che venissero riconosciuti loro i contributi previsti dalla nuova legge sulle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, lo Stato ha cambiato registro. Il Ministero dell’Interno, sulla base dei pareri espressi dalla Prefettura di Reggio Calabria e dal capo della Polizia, ha negato quegli aiuti, specificando che l’omicidio di Filippo Salsone non sarebbe riconducibile a una vicenda di mafia. Una tesi che, dopo che i familiari della vittima hanno fatto ricorso al Tar, l’avvocatura dello Stato ha continuato a sostenere nonostante soltanto tre anni fa sia arrivata la medaglia d’oro come vittima dei clan. Il Tribunale amministrativo di Milano ha impiegato sei anni per emettere una sentenza e soltanto per dire ora che non è competente a decidere, ma che della vicenda si deve occupare il Tribunale ordinario. Maresciallo eroe soltanto quando allo Stato non costa nulla.