Polemiche e social scatenati sulla morte del carabiniere. Inarrestabile l’onda di giustizialismo sulla rete. Ma la rabbia cieca è il peggior nemico della verità

Quante ce ne dicono a noi giornalisti, quelli che tacciono sulle cose scomode e quelli che non si fermano davanti ai pericoli, si tratti di farsi nemici pericolosi (anche criminali), di rischiare micidiali querele o di finire al pubblico ludibrio sulla rete. La credibilità della professione è a livelli così bassi che si fa presto a fare di tutta l’erba un fascio. D’altra parte con uno smartphone in tasca ci sentiamo tutti cronisti, mentre chi si informa – soprattutto sui social network – lo fa sempre più con l’approccio del tifoso che con quello del curioso. Per molti dei giornali tradizionali il destino è segnato, anche se chi ci sta dentro fa ancora finta di non vederlo, ma questo non è affatto uno scenario rassicurante, come si augura chi vuol vendicarsi di una categoria che ha protetto il potere, diventandone il cane da guardia o di compagnia.

Una volta ridotti i giornalisti nelle riserve indiane, ad informarci resteranno Facebook, di cui non sappiamo nulla neppure sull’algoritmo che lo controlla. E non solo. A seguire ci sarà un esercito di leoni da tastiera, buontemponi, terrapiattisti, rancorosi fannulloni e tuttologi presuntuosi, come il ricco plotone che ieri ha provato a fucilare il sottoscritto per aver spiegato che in uno Stato di diritto un indiziato non può essere bendato mentre è trattenuto in caserma per l’interrogatorio. A nulla è valso spiegare che la vittima dell’omicidio del vice brigadiere Mario Cerciello Rega è solo il carabiniere, no certo quello che appare il suo carnefice, e chi ha diffuso la foto per far sapere quanto il presunto assassino se la stesse già vedendo brutta, alla fine gli ha fatto solo un favore, offrendo alla difesa argomenti per invalidare i primi atti degli inquirenti.

Lasciamo perdere poi ogni spiegazione sulla differenza tra indagato e condannato, condizioni che i “giornalisti per caso” sovrappongono perfettamente, per non parlare dell’inventario delle pene inesistenti, come i lavori forzati di cui dobbiamo immaginare un’imminente proposta di legge, dato che a parlarne è il vicepremier Salvini. Quella benda, esattamente come le cose che dice Di Maio – per passare a un altro documento rubato – nell’audio registrato da qualche attivista in un’assemblea dei Cinque Stelle, sono però fatti e non invenzioni. Fatti che ciascuno di noi valuterà con la propria testa, ma che ci permettono di comprenderne il senso e gli effetti solo se abbiamo o raffiniamo gli strumenti per difenderci dalle insidie che contengono. Tipo non legittimare un interrogatorio contestabile o non confezionare il milionesimo pretesto per far saltare il Governo gialloverde di Giuseppe Conte.

Un obiettivo fin troppo scoperto se dopo mesi di insulti plateali, non pochi giornali online ieri sparavano che Luigi Di Maio in una riunione a porte chiuse ha definito il collega vicepremier “quello lì”. Una banalità assoluta, che però grandi testate hanno ritenuto di mettere in apertura dei siti online, manco fosse lo scoop del secolo. Come i giornalisti non sono tutti uguali, dunque il racconto dei fatti non ci porta sempre sulla strada maestra. E se non esiste una ricetta buona in assoluto per orientarsi, sentire cosa spiegano i giornalisti (magari senza condannarli a prescindere) e poi ragionare sempre in proprio è la prima mossa per non perdersi.