Tetti agli stipendi, i dipendenti portano la Camera in Cassazione. Così sfidano l’autodichia per cancellare anche gli effetti sulle pensioni

Avevano sostanzialmente vinto l’impugnativa dinanzi al Collegio d’appello. L’organo di giurisdizione interno di secondo grado di Montecitorio che ha parzialmente accolto il reclamo dei dipendenti della Camera contro la delibera adottata nel 2014 dall’Ufficio di presidenza. Un provvedimento (giudicato temporaneo e non reiterabile) che aveva introdotto il tetto di 240mila euro agli stipendi di dirigenti e funzionari sforbiciando anche le indennità di funzione. Ma, nonostante dal primo gennaio 2018 le retribuzioni siano tornate a volare sui livelli pre-2014, con un aggravio di spesa di 4,5 milioni di euro alla Camera e di 1,6 milioni al Senato (dati desumibili dai bilanci di previsione provvisori dei due rami del Parlamento, ndr), la battaglia dei dipendenti di Montecitorio non finisce qui. Seppur favorevole, infatti, secondo quanto appreso dalla Notizia, la sentenza d’appello emessa nel 2015 dalla giurisdizione interna è stata impugnata in Cassazione.

Sfida all’autodichia – Un’iniziativa, quella dei circa 300 dipendenti che hanno deciso di rivolgersi alla Suprema Corte, che rappresenta una vera e propria sfida all’autodichia. Ossia la particolare prerogativa riconosciuta a Camera e Senato di salvaguardare la propria autonomia da qualsiasi ingerenza esterna. E che, di fatto, impedirebbe ai dipendenti parlamentari di adire gli organi della giurisdizione ordinaria. Almeno finora. Perché se la Cassazione dovesse ritenere il ricorso (depositato ormai più di un anno fa) ammissibile, si determinerebbe un precedente che, in futuro, potrebbe consentire al personale di Camera e Senato di ottenere un terzo grado di giudizio, oggi precluso, davanti alla magistratura ordinaria avverso le sentenze emesse dagli organi della giurisdizione interna.  Ma su cosa si fonda il ricorso proposto dinanzi alla Suprema Corte? Vinta, come detto, la battaglia contro i tetti agli stipendi,  hanno deciso di proseguire la guerra in Cassazione i dipendenti che, andati in pensione durante il triennio di vigenza della delibera dell’Ufficio di presidenza, si sono visti calcolare la pensione sulla base di una retribuzione più bassa rispetto a quella piena. Subendo un pregiudizio – reclamano ora in Cassazione – rispetto ai colleghi che, invece, in pensione ci sono andati prima del 2014 e a quelli che ci andranno dal 2018. E che si vedranno parametrare l’assegno previdenziale allo stipendio pieno.

Privilegi e diritti – Certo, un’iniziativa che rischia di acuire il risentimento dei cittadini contro i privilegi della “casta”. Anche considerato che, per fare un esempio, un consigliere parlamentare della Camera, con 30 anni di anzianità, tornerà dal 2018 a percepire una retribuzione annua superiore ai 300mila euro. “Nessuno nega la legittima esigenza dell’Amministrazione della Camera di contenere i costi di gestione, ma le soluzioni debbono essere attuate nel rispetto dei principi cardine del nostro Ordinamento giuridico – spiega, contattato dalla Notizia, l’avvocato Maurizio Lanigra che ha presentato il ricorso in Cassazione per un gruppo di dipendenti -. Ma il punto è un altro: è giusto che, a differenza di tutti gli altri cittadini, ai dipendenti parlamentari non sia riconosciuto un giudice terzo e un terzo grado di giudizio nella tutela di un proprio legittimo diritto soggettivo? E’ legittimo che per attuare misure certamente gradite sotto un profilo mediatico si possano attuare misure ablative con effetto retroattivo su diritti quesiti dei propri dipendenti e costituzionalmente protetti? Noi riteniamo di no e ci auguriamo una decisione coraggiosa della Cassazione”.

Twitter: @Antonio_Pitoni