Toglietegli tutto ma non le nomine. Ecco perché Renzi abbaia ma non morde il Governo. Dopo settimane di minacce a M5S e Pd deve andare da Conte e ingoiare amaro

L’impressione è che Matteo Renzi se la canti e se la suoni da solo e che il premier, archiviata l’irritazione, si sia seduto sulla riva del fiume ad aspettare. Quello che è emerso, mercoledì, da Bruno Vespa – ovvero la retromarcia ingranata dal leader di Rignano rispetto ai propositi bellicosi della vigilia – trova conferma nelle parole pronunciate ieri da Renzi. Giuseppe Conte, anche nei momenti di maggiore tensione, ai suoi ha continuato a ripetere che non è disposto a offrire nessun pretesto per rompere ma che è il senatore fiorentino a dover, semmai, consumare lo strappo o aprire a un chiarimento.

SOLITO TEATRINO. Ed è proprio questa seconda via che Renzi ha imboccato per “metter fine al teatrino”: “Non abbiamo il desiderio di rompere. Ho chiesto al premier di vederlo la prossima settimana”. “La mia porta è stata, e sarà, sempre aperta”, replica Conte. In una conferenza stampa a Palazzo Madama – convocata qualche ora prima del voto sulla fiducia al dl Intercettazioni a cui di Iv solo lui e il neo-acquisto Tommaso Cerno non hanno partecipato – Renzi riciccia il piano choc per le infrastrutture, la battaglia sulla giustizia, l’elezione diretta del premier e la trasformazione del Reddito di cittadinanza da sussidio ad aiuto fiscale per imprese e lavoratori. Nel mirino di Iv, insomma, ci sono i due temi identitari del M5S: prescrizione e Reddito di cittadinanza. E che ora i carri armati di Renzi puntino nuovamente, dopo aver fallito il bersaglio Conte, ai 5 Stelle lo dimostra la storiella della sfiducia al Guardasigilli. Che poi si tratti di una minaccia post-datata (entro-Pasqua, si dice, quando la partita delle nomine sarà entrata nel vivo) è altra storia.

“Se Pietro Grasso ha interesse a vedere una mozione di sfiducia a un ministro non ha che da attendere”, dichiara Renzi. L’ex-presidente del Senato aveva sostenuto che il voto a Palazzo Madama della mattinata era una sorta di voto di fiducia per Alfonso Bonafede. I pentastellati fanno muro a difesa dei loro cavalli di battaglia e del ministro. “La mozione di sfiducia proposta da Renzi significa mettere fine al governo”, sintetizza per tutti il numero uno del Mise, Stefano Patuanelli. Ma a blindare il Guardasigilli è colui che sulla riva aspetta che passi il cadavere. “Ancora non ho capito – dice il premier – perché aleggia questa proposta di sfiducia su Bonafede che sta facendo un ottimo lavoro”. A spiegarglielo dovrà essere Renzi. Il premier nega che stia cercandosi altre maggioranze. In realtà sono i responsabili che si sono trovati da soli e sono pronti a farsi avanti al momento opportuno. E Renzi lo sa.

Nonostante questo, continua la sua piccola guerriglia in Parlamento. Ieri per dieci volte, alla Camera, ha votato in dissenso (anche sulla prescrizione) rispetto al parere del governo sugli ordini del giorno al Milleproroghe. “Iv sia chiara: vuole restare ancora al governo?”, chiedono i grillini. Si vocifera che, mercoledì, si sia tenuto un incontro tra i capigruppo di Iv e FI al Senato, per discutere di temi che li trovano sullo stesso fronte (riforme e giustizia) ma gli interessati non confermano. Viene confermata, invece, la volontà di Conte di andare in Parlamento su Agenda 2023. Ci sarà una verifica di maggioranza e un voto di fiducia? Il premier dribbla la domanda, spiegando che alle Camere “ci sarà l’esito del rilancio dell’azione di governo” dopo “il confronto avvenuto con tutte le forze di maggioranza”.

Un’occasione per smascherare il bluff di Renzi – che continua a ripetere di “non stare al governo a tutti i costi, ma solo se possiamo fare cose giuste” – o per lo show down finale se tutto dovesse crollare. Pd, la parte maggioritaria del M5S e Leu stanno con il premier. Che lancia la sua ultima freccia nell’arco: non la televisione ma il Parlamento è la sede ideale “dove si affrontano in modo lineare e trasparente i passaggi istituzionali”.