Criminalità. La vera sfida di Roma

di Peppino Caldarola

Quanti sono i Bronx di Roma? La domanda viene alla mente dopo la terribile sequenza criminale di mercoledì a San Basilio dove una guardia giurata ha sparato alla testa a un giovane che aveva litigato con il figlio dell’assassino e subito dopo alcune decine di persone hanno assaltato un’ambulanza accorsa per soccorrere i feriti e altre decine hanno cercato di linciare lo sparatore. Scena di una città violenta, non a caso si è parlato di Bronx, che avrebbero potuto ripetersi in altri quartieri difficili. E’ il tragico benvenuto al nuovo sindaco che eredita una città ancora più violenta da un altro sindaco che aveva vinto cinque anni fa con una campagna elettorale securitaria improntata alla lotta alla criminalità, rivelatasi fallimentare. A San Basilio si sono scontrati italiani. Altre volte protagonisti di violenza sono stati immigrati, clandestini o meno. La città di fronte a tutto ciò si sorprende, si addolora, si stupisce, si impaurisce. Eppure succede qui quello che accade in tutte le grandi città del mondo. C’è una grande criminalità, c’è una piccola criminalità, c’è la violenza diffusa che colpisce i diversi, quanti delitti contro i gay?, gli indifesi, vecchi e donne, ovvero si rivelano espressione di un malessere che rischia di far perdere di valore alla vita umana. Chiunque cerchi di cavalcare politicamente questa violenza urbana commette un nuovo delitto contro la città. Chiunque voglia dare a questi episodi efferati una spiegazione puramente sociologica dimostra una cultura scolastica banalizzante. Roma è grande, è cresciuta male, in essa convivono arre di grande sofferenza sociale. Quel che manca a Roma, a differenza di altre città in cui il contrasto alla violenza e alla criminalità è stato assai più efficace, è l’idea di chi la guida di governare una realtà complessa che va innanzitutto capita.
E poi Roma va amata di più dalle sue classi dirigenti.

Se vogliamo dire le cose come stanno, dobbiamo sapere che in questi anni il limite di Alemanno non è stata la sua ideologia, ma il suo disamore per la città. Abbiamo anche un prefetto che ha dedicato troppo tempo alla cura della propria candidatura come futuro capo della polizia.
Abbiamo avuto troppi episodi di forze dell’ordine che hanno rivelano tracce di collusione fino al punto che sono stati carabinieri a organizzare la trappola anti-Marrazzo e nessuno si è interrogato su come veniva diretta quella caserma dell’Arma, cioè con quali controlli e con quale professionalità.

Il primo punto da affrontare, parlo a Marino, è che Roma non può essere considerata dal punto di vista militare una città qualsiasi. Non ci sono solo i presidi strategici, cioè i luoghi del potere visibile, da controllare e difendere, ma c’è un tessuto urbano che sente il bisogno di una presenza capillare, dissuasiva, robusta. Il nuovo sindaco non deve avere paura di chiedere più forze dell’ordine da mettere sul territorio. Una città più controllata è più libera.
L’altra grande questione di Roma, e non solo di Roma ma a Roma diventa esplosiva, è la sua gigantesca periferia. Fuori dal centro storico e dai quartieri della buona borghesia, è tutta periferia, sono tutti casermoni, siamo in presenza di un melting pot confuso e spesso non accettato dai residenti. Spesso le organizzazioni del volontariato, cattoliche in particolare, e quelle sportive, penso al nugolo di piccole squadre di calcio di bambini, svolgono un ruolo eccezionale. Ma è troppo poco. Marino vuole bloccare i Fori imperiali al traffico? Credo che sia una stupidaggine.
I suoi primi atti di governo dovrebbero guardare a come arricchire le periferie di luoghi di socializzazione, a come creare un cultura dello stare assieme che possa rendere isolabile quella cultura violenta, quella cultura del farsi giustizia da sé che sembra prevalere. Se non fanno questo le circoscrizioni a che servono?

Roma convive con una immigrazione ormai massiccia. Vi sono comunità molto integrate, anche se spesso sono più integrate proprio quando rifiutano l’assimilazione, e altre meno. Su questi temi serve meno retorica e più inclusione. Una inclusione che sia severa, che scacci chi si mette fuori dalle regole ma che sappia convivere con altre culture, religioni e sensibilità. Roma non ha bisogno di un sindaco efficiente.
L’onestà e l’efficienza sono un pre-requisito, non una qualità aggiunta. Roma ha bisogno di un sindaco che la ami, che sappia percorrere le sue periferie, sanare i suoi piccoli mali in attesa di guarire quelli grandi, che sappia ispirare una cultura della città che negli anni si è smarrita.
Roma e i romani, quelli vecchi e quelli nuovi, devono imparare ad amarsi. Il sindaco deve essere sceriffo, predicatore, guaritore. Marino non dia retta a chi vorrà suggerirgli una nuova città-spettacolo, nuove tribuni o palcoscenici mondiali. Pensi alla sostanza. Pensi che San Basilio dovrà metter altre forze dell’ordine pretendendole dal governo, dovrà chiedere alla circoscrizione di occuparsi di quelle aree del quartiere dove è partita la violenza e cova il sentimento di vendetta.
Un grande sindaco di New York, Rudolph Giuliani, impostò il suo successo con un’azione di contrasto alla criminalità che fece epoca. Marino lo prenda come modello e ci metta un po’ della sua umanità. A Roma questo serve. Di sindaci che aspirano a ruoli nazionali ce ne sono stati già troppi.