Il 49esimo posto non è solo un numero. È un campanello d’allarme, una diagnosi clinica sulla salute democratica dell’Italia. Reporter senza frontiere (Rsf) lo ha messo nero su bianco nel suo indice 2025: la libertà di stampa nel nostro Paese peggiora ancora, tre posizioni in meno rispetto al 2024, con il risultato peggiore di tutta l’Europa occidentale. E non è una discesa accidentale, ma la conseguenza diretta di pressioni economiche, ingerenze politiche, minacce e un clima di intimidazione sistematica.
Libertà di stampa, la morsa economica e la concentrazione editoriale
Dietro il declino c’è un dato strutturale: il giornalismo non è economicamente sostenibile. Secondo Rsf, i media italiani sono sempre più dipendenti da pubblicità e fondi statali distribuiti con logiche opache. La vicenda dell’agenzia AGI e la possibile acquisizione da parte del gruppo del deputato di maggioranza Antonio Angelucci – già editore di testate nazionali e imprenditore sanitario – è la fotografia plastica di un conflitto d’interessi che mina la pluralità e consegna l’informazione nelle mani del potere.
L’assenza di una vera normativa antitrust in ambito mediatico lascia campo libero alla concentrazione editoriale, che a sua volta alimenta l’autocensura. Giornalisti costretti a piegarsi alla linea dei propri editori o a tacere per evitare denunce per diffamazione. È un clima in cui la libertà si misura col bilancino del rischio personale, e non con il rigore dell’indipendenza professionale.
Il peso delle mafie e la minaccia delle querele
Nel sud Italia la morsa delle organizzazioni mafiose continua a strangolare la stampa locale. Ventuno giornalisti vivono sotto scorta permanente. Sono i corrispondenti che raccontano il crimine organizzato, la corruzione, i rapporti opachi tra politica e affari. Non eroi, ma cronisti con la sola colpa di voler fare il proprio mestiere.
A tutto questo si aggiunge la pioggia di querele/citazioni temerarie: strumenti legali abusati per intimidire, logorare, zittire. E ora, come se non bastasse, c’è anche la legge bavaglio: un provvedimento voluto dal governo Meloni che vieta la pubblicazione (letterale) di ordinanze di custodia e altre misure cautelari fino all’udienza preliminare. Un colpo alla giustizia trasparente, ma soprattutto un silenziatore puntato dritto sulla cronaca giudiziaria.
Il silenzio del governo e il richiamo dell’Europa
Di fronte a questa china, il governo tace. Ma il silenzio non è mai neutrale. Lo ha detto chiaramente il presidente della Fnsi, Vittorio Di Trapani: il controllo sulla Rai, il progetto di vendita dell’AGI, le leggi bavaglio, le pressioni sulla stampa indipendente sono tasselli di una strategia più ampia. Una deriva che – se non fermata – rischia di farci scivolare verso modelli come quello ungherese.
In Europa è già suonato il primo allarme. L’Italia rischia l’infrazione per il mancato rispetto dell’European Media Freedom Act, la normativa approvata per garantire pluralismo e indipendenza nei media dei Paesi membri. Ma il governo italiano sembra ignorarla, preferendo i silenzi alla trasparenza.
La libertà di stampa come spesa da tagliare
Nel rapporto Rsf, l’indicatore economico globale ha toccato il livello più basso mai registrato. L’Italia non fa eccezione. Quando l’informazione diventa un’attività in perdita, quando i giornalisti non guadagnano abbastanza per vivere, la democrazia si sfilaccia. Il risultato? Una stampa che rincorre l’audience anziché i fatti, redazioni che chiudono, notizie che scompaiono. E dove scompaiono le notizie, prosperano la propaganda, la manipolazione, il rumore senza contenuto.
Il modello norvegese – primo nella classifica Rsf – dimostra che un’altra strada è possibile. Ma serve una scelta politica netta: difendere l’informazione come bene comune, e non come fastidio da gestire. In fondo, è semplice: senza una stampa libera, l’Italia non è una democrazia piena. E ogni classifica che ci relega più in basso non è un attacco, ma un promemoria. Prima che sia troppo tardi.