È la prima volta nella storia della Repubblica Federale che un cancelliere designato non ottiene la fiducia al primo giro. Friedrich Merz, leader della CDU e architetto della fragile coalizione con l’SPD e la CSU, si è fermato a sei voti dalla maggioranza assoluta. Un dato numerico che da solo non spiega la portata del terremoto. Perché quella fiducia negata racconta di una Germania spaccata, di una maggioranza già in bilico e, soprattutto, di una pressione esterna che ha contorni sempre più chiari: Donald Trump.
Nel pomeriggio, però, al secondo turno di votazione, Merz è stato eletto cancelliere con 325 voti favorevoli. La maggioranza assoluta non era più necessaria.
Un esito che garantisce l’insediamento ma non cancella la portata simbolica del primo voto fallito, né le fratture che lo hanno determinato.
Un’agenda americana per destabilizzare Berlino
Nelle ultime settimane, le tensioni tra Berlino e Washington sono passate da sottotraccia a dichiarazione aperta. Non solo sul piano economico, dove i dazi imposti dagli Stati Uniti hanno colpito con precisione chirurgica i settori più esposti dell’economia tedesca. Non solo nella NATO, dove Trump ha rispolverato il vecchio copione del “pagate o vi lasciamo soli”. Il punto più critico, quello che ha minato la tenuta interna del blocco Merz, è arrivato sul fronte più scivoloso: la politica interna tedesca.
Quando il Bundesamt für Verfassungsschutz ha classificato l’AfD come “organizzazione estremista di destra”, la reazione americana è stata immediata e velenosa. Marco Rubio, oggi Segretario di Stato, ha parlato di “tirannia mascherata”. JD Vance, vicepresidente, ha accusato il governo tedesco di voler “distruggere” il partito più votato dell’Est del paese. Elon Musk ha rilanciato. Steve Bannon ha benedetto l’AfD come il “MAGA della Germania”. Non si tratta solo di una simpatia ideologica: è una strategia.
La coincidenza temporale non lascia spazio a dubbi. Le dichiarazioni incendiarie di Washington sono arrivate mentre Merz tentava di formare un governo in grado di tenere fuori l’AfD e mantenere il cordone sanitario. Il messaggio, per chi guarda da Dresda o da Chemnitz, è chiaro: l’America di Trump legittima l’opposizione più radicale, la sdogana. E così l’AfD guadagna terreno, nei sondaggi e nei palazzi.
Dazi, NATO, Ucraina: l’assedio multilivello
Parallelamente, la leva economica ha fatto il resto. I dazi del 10% sulle importazioni generali, quelli del 25% su acciaio e auto, l’aumento delle barriere non tariffarie: tutto progettato per colpire le eccellenze tedesche. La reazione dell’economia non si è fatta attendere. Le esportazioni frenano, i margini si assottigliano, i timori per una recessione tornano a occupare le prime pagine. Ed è qui che la fragilità politica interna si fa crepa strutturale. Perché Merz, l’uomo che doveva rassicurare i mercati e blindare il centro, si ritrova accerchiato: a destra dall’AfD che lo accusa di “cripto-sinistrismo”, a sinistra da un SPD logorato, all’esterno da una potenza alleata che gioca contro.
La retorica trumpiana sulla NATO non fa che peggiorare il quadro. I richiami a un aumento della spesa militare fino al 3,5% del PIL, le minacce velate di abbandono, le frasi come “se non pagate, non vi proteggeremo” sono un attacco diretto a un paese che, nel 2024, ha appena raggiunto l’obiettivo del 2%. A Berlino lo sanno: ogni concessione in più rischia di esplodere politicamente, specie con una Schuldenbremse appena ritoccata e un’opinione pubblica sempre più ostile ai diktat americani.
Ma il punto più critico resta l’Ucraina. Mentre Merz prova a riaffermare la continuità con la linea Scholz – sostegno fermo a Kyiv, leadership europea nella difesa – Washington vira. I segnali di apertura a Mosca, i rallentamenti negli aiuti militari, la visione dell’Ucraina come stato-cuscinetto: tutto questo rischia di isolare la Germania proprio nel momento in cui dovrebbe guidare. E il vuoto lasciato dagli Stati Uniti non può essere riempito in pochi mesi.
Il voto mancato in Bundestag è solo il sintomo di questa pressione a più strati. Non è un inciampo tecnico, è un avvertimento geopolitico. Il secondo turno vinto da Merz non basta a dissipare i dubbi: è un via libera condizionato, fragile, e già gravato da crepe evidenti. Un governo che nasce sotto attacco, in un’alleanza precaria e con una strategia ostile che arriva da chi, fino a ieri, era partner fondamentale.Un governo che nasce sotto attacco, in un’alleanza precaria e con una strategia ostile che arriva da chi, fino a ieri, era partner fondamentale.
Trump non ha bisogno di sovvertire la Germania: gli basta indebolirla. Legittimare l’AfD, colpire l’export, alimentare il sospetto verso la NATO, ridurre Berlino a una pedina marginale nello scacchiere ucraino. In tutto questo, Merz è l’anello debole: troppo moderato per l’America trumpiana, troppo compromesso per l’AfD, troppo isolato per Bruxelles.
In fondo, è l’ennesimo laboratorio europeo: qui si gioca la sfida tra un centro logoro e un’estrema destra sdoganata, tra un atlantismo condizionato e un’autonomia strategica ancora incerta. Per ora, la fiducia non c’è. Né in parlamento, né – più gravemente – nei rapporti con l’alleato americano. Merz ha ottenuto la carica, ma non la fiducia piena. Né in parlamento, né – più gravemente – nei rapporti con l’alleato americano.