Riforme Made in Meloni, ecco la strategia per disinnescare il Colle

Premierato, legge elettorale, Csm, autonomia e giustizia: il mosaico delle riforme volute da Meloni per un governo con meno contrappesi

Riforme Made in Meloni, ecco la strategia  per disinnescare il Colle

Nel gioco lungo della politica italiana, ci sono ambizioni che non si dicono. E poi ci sono ossessioni che, per quanto smentite, si leggono in controluce in ogni mossa. Giorgia Meloni guarda al Quirinale. Non per salirvi, ma per occuparne lo spazio simbolico. Per garantirsi che, alla prossima scadenza presidenziale, nessuno possa frapporsi tra lei e il consolidamento di un potere già centrale.

Dietro la riforma del premierato, la riscrittura della legge elettorale, la retorica della stabilità e della “democrazia decidente”, si intravede un disegno a medio termine: disinnescare il Quirinale come organo di bilanciamento e assicurarsi un Presidente della Repubblica non ostile. Non serve che sia fedele, basta che sia innocuo. E magari utile.

Un premier forte e un presidente indebolito

La proposta di premierato elettivo – che nel 2022 era ancora un presidenzialismo dichiarato – oggi si è trasformata in una riforma istituzionale costruita con chirurgica pazienza. Ufficialmente per rafforzare il potere esecutivo, in realtà per ridimensionare chirurgicamente quello presidenziale: la nomina del premier, lo scioglimento delle Camere, la gestione delle crisi di governo, la nomina dei senatori a vita. Tutto verrebbe riportato sotto l’orbita di un esecutivo legittimato direttamente dal popolo e di fatto insindacabile.

Una presidenza della Repubblica formalmente intatta ma sostanzialmente svuotata: ecco la forma gentile di un’egemonia istituzionale. Non è più l’elezione diretta del capo dello Stato, è il suo accerchiamento. E così il Quirinale, nella narrazione meloniana, passa da garante a spettatore.

Coalizione in ordine sparso, ma con un obiettivo comune

Perché tutto questo funzioni, però, serve un parlamento obbediente. La legge elettorale, mai dichiarata apertamente, è il secondo pilastro del progetto. Abbandonare il Rosatellum, fonte di insidie nei collegi meridionali e arma potenziale dell’unità delle opposizioni, e approdare a un sistema che garantisca una maggioranza coesa. Magari premiando chi supera il 40%. Un obiettivo che Meloni può ancora coltivare, soprattutto se riesce a tenere unita la coalizione.

Forza Italia gioca su due tavoli: europeismo rassicurante e ambizioni quirinalizie. Tajani, nome che gira da mesi per il Colle, potrebbe essere la pedina sacrificabile per ottenere in cambio la blindatura del premierato. Alla Lega, invece, interessa tornare protagonista sul piano interno: Salvini al Viminale, magari. Il Quirinale può diventare merce di scambio o pretesto per rompere. Ma a oggi Meloni regge la trama, consapevole che ogni concessione agli alleati serve solo se utile a mantenere il controllo del disegno.

Una strategia che passa per le riforme (e per l’inerzia)

Niente è lasciato al caso. La riforma del premierato, pur rallentata, non è archiviata: il governo la tiene in caldo, pronto a rilanciarla quando i tempi saranno maturi, magari dopo la legge di bilancio. L’autonomia differenziata e la riforma della giustizia completano il quadro: indebolire il Capo dello Stato significa anche limitarne i poteri in seno al Consiglio superiore della magistratura, o influenzare i delegati regionali che compongono l’assemblea chiamata a eleggere il successore di Mattarella. Ogni casella è parte dello stesso scacchiere.

In questo contesto, Meloni non ha bisogno di forzare il futuro: le basta organizzarlo. La riforma elettorale, il premierato e una gestione sapiente degli equilibri interni possono bastare per ritrovarsi nel 2029 con un parlamento plasmato a sua immagine e una maggioranza pronta a indicare un Presidente della Repubblica “non proveniente dalla sinistra”. Come disse lei stessa nel 2022, con un rimpianto che ora suona come promessa.

Un progetto che preoccupa (ma non frena)

Costituzionalisti, politologi, giuristi e associazioni come l’Anpi parlano apertamente di un rischio per la democrazia. Denunciano lo svuotamento del ruolo presidenziale, l’indebolimento del Parlamento, la deriva di un modello che non ha paragoni nelle democrazie occidentali. Il “premierato all’italiana”, senza contrappesi e senza precedenti, è visto come un salto nel buio istituzionale.

Ma il punto è che non si tratta solo di una riforma. È una strategia. E le strategie non si valutano solo per ciò che dicono, ma per ciò che permettono. L’idea di Meloni non è semplicemente riscrivere la Costituzione: è riscrivere il rapporto di forza tra gli organi dello Stato. E garantirsi, nel tempo, il controllo degli snodi decisionali, a partire da quello più alto.

Perché in fondo, dietro ogni grande ambizione, c’è sempre una grande paura: che il potere possa scivolare via quando meno te l’aspetti. E al Quirinale, quella paura prende il nome di un Presidente che non obbedisce. E che, per sette lunghi anni, può ricordarti ogni giorno che la democrazia, quando funziona, non ha padroni.