La sfida dei referendum: Renzi difende il Jobs Act ma i numeri lo smentiscono

La campagna di Renzi e dei renziani (anche del Pd) a difesa del Jobs Act si scontra con i numeri. Il Fact checking di Pagella Politica

La sfida dei referendum: Renzi difende il Jobs Act ma i numeri lo smentiscono

La campagna di difesa del Jobs Act, lanciata da Matteo Renzi e dai renziani di Italia Viva in vista dei referendum di giugno, poggia su fondamenta fragili. Il tentativo di ribaltare la percezione di una riforma impopolare si è tradotto in un carosello su Instagram che pretende di “sbugiardare” le critiche. Ma è bastato un fact-checking puntuale di Pagella Politica per restituire alle parole il peso dei fatti e svelare le omissioni e le semplificazioni dietro quella che appare come un’operazione di maquillage politico.

L’articolo 18 non ritorna? Solo a metà

Secondo Italia Viva, votare Sì al referendum per abrogare il contratto a tutele crescenti non ripristinerebbe l’articolo 18, ma la legge Fornero. Formalmente corretto, ma il messaggio è ingannevole. La legge Fornero fu il primo colpo all’articolo 18, il Jobs Act lo ha affondato definitivamente. Abrogare il decreto del 2015 significherebbe comunque eliminare la norma che ha sostituito il reintegro con una semplice indennità economica per i licenziamenti illegittimi dei nuovi assunti. La sostanza non cambia: si tratta di ripristinare un minimo di garanzie, dopo che il Jobs Act le ha rese residuali.

I numeri dell’occupazione

Renzi e i suoi rivendicano 1.270.000 nuovi posti di lavoro creati durante i governi Renzi e Gentiloni, metà dei quali a tempo indeterminato. Un numero reale, ma usato in modo distorto. Come sottolinea Pagella Politica, non si può attribuire quell’aumento al Jobs Act: la riforma è composta da misure frammentate e approvate in momenti diversi. E parlare di “posti di lavoro” invece che di “occupati” è una forzatura. Basti pensare che per essere considerati occupati basta anche un’ora di lavoro a settimana. In più, nel periodo considerato, tutta Europa ha registrato un aumento dell’occupazione. Soprattutto, a gonfiare le assunzioni a tempo indeterminato furono gli sgravi contributivi, non la riforma in sé.

Dimissioni in bianco: merito relativo

Un’altra rivendicazione renziana è quella sull’abolizione delle dimissioni in bianco, una pratica odiosa usata per ricattare lavoratrici e lavoratori. Il governo Renzi ha effettivamente introdotto nel 2016 una procedura telematica per rendere più sicuro il processo di dimissioni. Ma anche in questo caso la narrazione è esagerata: la lotta alle dimissioni in bianco era iniziata nel 2007 con la riforma Damiano, poi proseguita nel 2012 con ulteriori strumenti di controllo. Il Jobs Act ha semplificato e rafforzato un percorso già in atto, non lo ha inventato. E non può certo cancellare, con questa foglia di fico, l’impianto generale della riforma che ha tagliato le tutele contro i licenziamenti.

NASPI e congedi: innovazioni minime

Italia Viva difende il Jobs Act anche evocando la NASPI e l’estensione dei congedi parentali. Ma entrambe le misure sono state più un accorpamento e una razionalizzazione di strumenti esistenti che un cambio di paradigma. La NASPI, introdotta nel 2015, ha sostituito strumenti nati nel 2012. I congedi sono stati resi un po’ più flessibili, ma senza aumentare la durata complessiva. Sono ritocchi, non riforme. E non bastano a sostenere la tesi secondo cui il Jobs Act avrebbe rafforzato il welfare. Tanto più che l’architrave della riforma resta quella “flexicurity” che ha promesso sicurezza e offerto solo flessibilità.

Un referendum anche sul Jobs Act

Il referendum di giugno non sarà solo un giudizio sul Jobs Act. Sarà anche un’occasione per fare chiarezza sulle narrazioni tossiche che hanno accompagnato la sua approvazione e la sua difesa. I numeri, le fonti e la storia raccontano una realtà diversa da quella di Renzi e dei suoi epigoni. Una realtà dove le tutele si sono ridotte, i diritti compressi e la retorica del “fare” si è rivelata un’operazione di smantellamento, più che di riforma.