Il 15 maggio in Senato il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha affermato che le donne vittime di violenza dovrebbero “rifugiarsi in una chiesa o in una farmacia” in caso di pericolo. Le sue parole sono state definite “sconcertanti” da D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza – che le ha giudicate “un’ammissione implicita dell’incapacità dello Stato di garantire protezione effettiva”.
Le critiche si inseriscono in un contesto già segnato da gravi carenze. Insomma no, non sono solo parole. Secondo i dati preliminari forniti da osservatori indipendenti come Telefono Rosa e Casa delle Donne, nel primo quadrimestre del 2025 il numero di femminicidi si mantiene in linea con la media degli anni precedenti, tra 100 e 120 l’anno, senza segnali di inversione. La componente strutturale del fenomeno è confermata: oltre il 50% degli omicidi di donne avviene in ambito familiare o affettivo.
Dati stabili, risposte fragili
Dall’introduzione del “Codice Rosso” (Legge n. 69/2019), il quadro normativo è stato progressivamente ampliato, ma le associazioni denunciano l’inefficacia delle misure senza personale specializzato, integrazione territoriale e finanziamenti stabili. D.i.Re sottolinea che, nonostante l’obbligo di audizione della vittima entro tre giorni, le procure restano in affanno, spesso prive di risorse e formazione adeguata.
Le parole del ministro si sommano a una serie di dichiarazioni pubbliche da parte di esponenti della maggioranza che – secondo UDI, Unione Donne in Italia – “riconducono il femminicidio a un problema individuale o emergenziale, negandone la natura sistemica e patriarcale”. Si contesta inoltre l’eccessiva enfasi repressiva a scapito della prevenzione.
Sulla scuola, il governo ha ostacolato proposte di educazione all’affettività e al consenso, etichettandole come “ideologia gender”. Per la rete dei centri antiviolenza, questa posizione “ostacola un intervento strutturale necessario a scardinare gli stereotipi culturali alla base della violenza”.
Fondi, piani e l’illusione dell’efficienza
Anche sul piano legislativo, le misure più recenti sono giudicate insufficienti. La bozza di legge governativa contro la violenza sulle donne – secondo le associazioni consultate – non prevede risorse adeguate, si concentra su pene e ammonimenti senza un investimento parallelo su percorsi per uomini maltrattanti e supporto all’autonomia delle donne.
Il GREVIO (organo di monitoraggio della Convenzione di Istanbul), in una precedente raccomandazione, aveva già sottolineato come l’Italia dovesse migliorare “l’effettiva implementazione del quadro normativo, il coordinamento interistituzionale e la raccolta sistematica dei dati”. Questi punti restano irrisolti.
Dal punto di vista finanziario, D.i.Re segnala che i fondi ai centri antiviolenza continuano a essere insufficienti, erogati in ritardo e non strutturali. Alcuni centri rischiano la chiusura o operano con personale precario, senza copertura h24, con forti limiti nell’offerta di consulenza legale, supporto psicologico e reinserimento lavorativo. Anche i programmi per il trattamento degli uomini autori di violenza (CUAV) risultano carenti. Gli esperti sottolineano la loro importanza per prevenire la recidiva, ma lamentano la scarsità dei fondi e la disomogeneità territoriale.
Le associazioni chiedono con insistenza una strategia nazionale integrata, che coordini gli interventi dei diversi ministeri, coinvolga attivamente enti locali e regioni, e sia sostenuta da finanziamenti certi e da un Piano Antiviolenza aggiornato, monitorato e dotato di strumenti operativi.
Secondo l’Osservatorio di Pavia e GiULiA Giornaliste, l’“effetto Cecchettin” ha migliorato temporaneamente la qualità della copertura mediatica, ma sono tornati in alcuni casi linguaggi inadeguati, narrazioni vittimizzanti e la tendenza a ignorare il processo giudiziario e il supporto alle sopravvissute. La fotografia italiana del 2025, secondo D.i.Re, è quella di uno Stato che ancora non garantisce protezione tempestiva ed efficace, che non investe in prevenzione culturale e che risponde all’emergenza strutturale con misure parziali, frammentarie e spesso non coordinate. Contro le donne non ci sono solo le parole del ministro.