Ho seguito con grande attenzione e interesse il confronto tra il segretario della Cgil Maurizio Landini e il leader di Iv Matteo Renzi andato in scena mercoledì sera da Enrico Mentana su La7. Davanti a un botta e risposta a tratti accesso sul Jobs Act, oggetto di tre dei 5 referendum di domani e lunedì, ognuno si sarà fatto la sua idea su chi ha vinto e chi ha perso. Personalmente, rimango sempre colpito dalle capacità di slalomista dell’ex segretario del Pd ed ex premier. Anni or sono, Maurizio Crozza ne estremizzò i caratteri dando vita ad alcuni sketch memorabili: “Chi l’ha detto che a Natale si deve fermare il politicare del lavorare sul prospettare? A Natale non bisogna pandorare ma ponderare, non bisogna farsi gli auguri ma augurarsi di fare”. Battute a parte, tre sere fa, in un pot-pourri di citazioni – dal super ammortamento agli 80 euro, dalla Naspi al Rei – Renzi ha difeso la sua creatura con le unghie e con i denti. Gliene diamo atto.
Al contempo, egli ha ragione quando dice che i bassi salari sono uno dei principali problemi degli italiani, ma allora perché, all’epoca, non attuò la delega prevista proprio dal Jobs Act per stabilire una paga oraria minima universale – che nelle sue intenzioni doveva essere compresa fra i 9 e i 10 euro? E per quale motivo oggi, davanti alla proposta di legge unitaria di M5S-Pd-Avs sul tema, si dice contrario e la definisce “una pagliacciata”? Diciamocela tutta: il fatto di non essere riuscita a “cambiare verso” (per usare lo slang renziano) ai nostri stipendi è stato uno dei grandi fallimenti di questa riforma. A maggio 2024, su “Etica ed Economia”, Alessandro Bellocchi e Giuseppe Travaglini hanno osservato come “a partire dal 1997 con il ‘Pacchetto Treu’ e attraverso successivi interventi normativi fino al ‘Decreto Poletti’ del 2014 (uno degli assi portanti del Jobs Act, ndr), si è assistito a una crescente deregolamentazione del mercato del lavoro italiano, per ridurre la disoccupazione e migliorare la competitività delle imprese”.
Tre decenni dopo, però, “i dati economici raccontano una storia diversa”, hanno sottolineato ancora i due docenti: “Le riforme hanno favorito (in parte) l’occupazione, ma a scapito della crescita economica, della produttività e dei salari, e con un livello di precarietà del lavoro senza precedenti nella storia della Repubblica”. Con i referendum abbiamo non solo l’occasione di cancellare definitivamente alcune di quelle norme ma, anche e soprattutto, di lanciare un messaggio inequivocabile ai fan sfegatati delle fallimentari politiche sul lavoro degli ultimi 25/30 anni. Non sprechiamola.