C’è un’ossessione ricorrente nella propaganda di Matteo Salvini: raccontare la legge come un fastidio, un ostacolo, un inciampo. Lo ha fatto di nuovo il 16 giugno, quando ha dichiarato che l’indagine a carico di due poliziotti – colpevoli, secondo lui, solo di aver ucciso un assassino – rappresenta un disincentivo per chi ogni giorno rischia la vita. E quindi? E quindi la Lega sta lavorando per evitare che, in casi simili, scatti l’iscrizione nel registro degli indagati. Un dettaglio tecnico solo all’apparenza. In realtà, è un terremoto giuridico.
Perché quel registro, l’articolo 335 del codice di procedura penale, non è un tribunale. Non è una gogna. Non è una condanna. È il meccanismo che attiva il diritto alla difesa, permette la nomina di un avvocato, garantisce che un’autopsia o una perizia balistica avvengano con la presenza dei consulenti di parte. Toglierlo vuol dire trasformare un poliziotto in un testimone muto, senza tutele, senza strumenti, senza possibilità di parola. Salvini lo presenta come uno scudo, ma è un bavaglio.
Il diritto penale non è un’opzione
È una proposta che, nel merito, ignora tutto. Ignora che l’azione penale in Italia è obbligatoria, e non discrezionale, come garanzia di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Ignora che non si può stabilire a priori che un colpo di pistola sia legittimo: lo decide un giudice, sulla base dei fatti, non un ministro sulla base del tifo. Ignora che l’iscrizione nel registro degli indagati, nella stragrande maggioranza dei casi, finisce con un’archiviazione, proprio perché è uno strumento di verifica, non di condanna.
E ignora – e forse qui non si tratta di ignoranza, ma di calcolo – che senza quell’iscrizione non si possono raccogliere prove, non si può contestare nulla, non si può proteggere nessuno. Non l’agente che ha agito correttamente, né la vittima di un eccesso, né lo Stato che dovrebbe garantirci giustizia. Il risultato è un buco nero legale in cui un omicidio – anche quando è giustificato – diventa un fatto amministrativo, privo di rilievo penale, sottratto al controllo della magistratura.
Da Salvini una trappola anche per chi indossa la divisa
La cosa più paradossale, però, è che Salvini presenta tutto questo come una misura a difesa delle forze dell’ordine. E invece è il contrario. Perché oggi, proprio grazie a quella iscrizione, un agente può partecipare agli atti, difendersi, far valere le proprie ragioni. Senza, viene trattato come un funzionario qualunque, un elemento secondario del caso. Non ha diritto a un legale, non può nominare periti, rischia addirittura che le sue dichiarazioni vengano invalidate perché rese senza le necessarie garanzie. È un assist perfetto per chi vuole impugnare il procedimento e screditare l’intervento.
Ma naturalmente a Salvini non interessa il merito, interessa il messaggio. E il messaggio è semplice, brutale, da talk show: i poliziotti devono sparare senza doverne rispondere. Il problema, però, è che in uno Stato democratico tutti rispondono dei propri atti. Anche quando sono legittimi. Anche quando sono doverosi. Anche quando sono difficili. È il principio della responsabilità penale personale, ed è scritto nero su bianco nella Costituzione. Violare quel principio significa dire che alcuni cittadini sono “più cittadini” degli altri. Che un colpo esploso da una divisa vale di più di un corpo a terra.
Un’anomalia che ci allontana dall’Europa
Non esiste nessun Paese democratico che abbia adottato una norma del genere. Non esiste in Francia, dove le indagini sugli agenti sono affidate all’IGPN. Non esiste in Inghilterra, dove interviene un organismo indipendente. Non esiste negli Stati Uniti, dove pure la “qualified immunity” viene usata (e criticata) per schermare gli agenti da richieste civili, non certo da inchieste penali. Salvini propone qualcosa che neanche le democrazie malate si permettono. Qualcosa che l’Italia ha già pagato con condanne a Strasburgo, come nei casi Giuliani, Alikaj, Cucchi.
Salvini e l’idea che sospende la democrazia
Il punto è che questa proposta non nasce per difendere la legge, ma per sospenderla. Per dire che in nome della sicurezza si può disattivare il diritto. Per trasformare ogni indagine in un atto di lesa maestà, ogni controllo in un attacco, ogni cittadino che pretende giustizia in un nemico. È la criminalizzazione della magistratura, la politicizzazione dell’uso della forza, l’ennesima forzatura di un partito che confonde lo Stato con l’ordine pubblico e il potere con l’impunità.
Il problema non è solo giuridico. È politico. Se passa l’idea che la legge può essere adattata alle categorie, ai ruoli, alle convenienze del momento, allora niente è più garantito. Perché oggi è il poliziotto, domani sarà il politico, dopodomani sarà il cittadino “perbene”. È sempre così che cominciano le eccezioni, che diventano precedenti, che diventano abitudini. È sempre così che le democrazie si addormentano. Sotto una coperta di slogan, con i codici in tasca, e le mani sul grilletto.