L’esportazione della democrazia è il grande mito fondativo della politica estera occidentale. Una bandiera impugnata da Washington e Londra, e a ruota da Bruxelles, ogni volta che si rende necessario giustificare una guerra, un colpo di Stato, una destabilizzazione. Ma la cronaca storica, alla prova dei documenti e delle conseguenze, racconta tutt’altro: guerre mascherate da operazioni umanitarie, regimi democratici rovesciati nel nome della libertà, e il caos sistematico come prodotto finale. Non è solo una sequenza di errori: è un metodo. Perché le bugie ricorrono, le motivazioni si ripetono, e i risultati – repressione, terrorismo, povertà – sono la regola, non l’eccezione.
Iran 1953: il “peccato originale”
Il primo esempio di questa dottrina dell’ipocrisia ha il volto di Mohammad Mossadeq, primo ministro democraticamente eletto in Iran. Il suo “errore”? Nazionalizzare il petrolio, togliendo profitti alla Anglo-Iranian Oil Company. La CIA e l’MI6 lo dipinsero come burattino dei sovietici e lo rovesciarono con l’Operazione Ajax. In realtà, Mossadeq non era comunista, ma un nazionalista riformista. Il vero obiettivo era proteggere gli interessi energetici occidentali. Il risultato fu lo Scià: un dittatore feroce, sostenuto per decenni da Washington. Un regime di torture, censura e corruzione, che portò – come prevedibile – alla rivoluzione islamica del 1979. Una lezione che l’Occidente si è ben guardato dal imparare.
Cile 1973: democrazia contro mercato
Vent’anni dopo, il copione si replica in America Latina. Il presidente cileno Salvador Allende viene democraticamente eletto e attua una politica di nazionalizzazioni – in particolare del rame, controllato da multinazionali USA. La risposta della Casa Bianca è chirurgica: propaganda, sabotaggi economici, sostegno ai militari. L’11 settembre 1973 il golpe di Pinochet rovescia Allende. L’esito: 17 anni di dittatura, torture di Stato, desaparecidos. Il Cile diventa un laboratorio neoliberista sotto supervisione di Chicago Boys e FMI. Il crimine è chiaro: punire chi, pur votato, prova a sottrarsi ai meccanismi dell’economia coloniale americana.
Iraq 2003: la guerra delle bufale
Nel XXI secolo l’ipocrisia si fa più raffinata. L’Iraq di Saddam Hussein viene accusato di possedere armi di distruzione di massa e di collaborare con Al-Qaeda. Due menzogne strategicamente orchestrate. L’invasione americana avviene senza mandato ONU, e il risultato è noto: centinaia di migliaia di morti, una guerra civile interminabile, la nascita dello Stato Islamico. La democrazia promessa non arriva mai. Ma il petrolio, sì: l’industria irachena viene privatizzata, le compagnie occidentali tornano operative. Il rapporto Chilcot, nel 2016, ha formalizzato ciò che era evidente: nessuna minaccia imminente, intelligence manipolata, guerra illegale.
Libia 2011: da Gheddafi all’anarchia
La caduta di Gheddafi fu spacciata come intervento umanitario per evitare un “genocidio” a Bengasi. La NATO bombardò per mesi con il sostegno dell’ONU. Gheddafi fu ucciso, ma la Libia si trasformò in uno Stato fallito. Milizie armate, tratta di esseri umani, infiltrazioni jihadiste, due governi rivali. L’obiettivo dichiarato – protezione dei civili – fu ampiamente superato. Le vere motivazioni? L’accesso al petrolio e la paura, da parte della Francia, che Gheddafi lanciasse una moneta panafricana d’oro che avrebbe minacciato il franco CFA. Un’altra volta, l’umanitarismo servì solo a mascherare interessi coloniali.
Afghanistan 2001-2021: due decenni di menzogne
Dopo l’11 settembre, gli USA invadono l’Afghanistan per sradicare Al-Qaeda. I Talebani vengono rovesciati, ma il Paese resta occupato per vent’anni. Si parla di “nation building”, diritti delle donne, scuole, libertà. I documenti interni, pubblicati dal Washington Post (“Afghanistan Papers”), svelano invece il cinismo: le amministrazioni USA sapevano che il conflitto era ingiocabile, ma mentivano sistematicamente. L’obiettivo reale? Il controllo geopolitico e le rotte energetiche: gas, petrolio, terre rare. Nel 2021 i Talebani tornano al potere. Nulla è cambiato, salvo le macerie e i morti.
Guatemala, Congo, Egitto: la lista continua
Il Guatemala nel 1954: il governo Arbenz viene rovesciato perché vuole ridurre il potere della United Fruit Company. Risultato: dittature militari e una guerra civile con oltre 200.000 morti. In Congo, Mobutu viene sostenuto dagli USA per decenni in cambio del controllo su rame, coltan e cobalto. In Egitto, l’Occidente loda la primavera araba solo finché non arriva al potere un presidente islamista: a quel punto il colpo di Stato militare viene benedetto in nome della stabilità.
Il copione: bufale, risorse, distruzione
Ogni intervento segue uno schema fisso: si costruisce una minaccia (comunismo, terrorismo, genocidio). Si diffonde una bugia legittimante (armi, massacri imminenti, collaborazioni terroristiche). Si interviene militarmente per “proteggere” qualcuno. Si garantisce l’accesso a petrolio, minerali, rotte strategiche. Si lascia un Paese in frantumi.
In questa catena, la democrazia è sempre l’ultima delle priorità. Più spesso, è il primo bersaglio.
Il prezzo dell’ipocrisia
La storia dei cambi di regime imposti dall’Occidente non è una storia di fallimenti. È una storia di coerenza. L’obiettivo non è mai stato la libertà, ma l’accesso alle risorse, il dominio strategico, la punizione di chi osa affrancarsi. Le bufale – dal comunismo a Mossadeq al genocidio inventato di Gheddafi – sono strumenti di marketing bellico. E l’Occidente, ogni volta, si dice sorpreso dalle macerie. Ma non c’è sorpresa: c’è solo complicità. E se la democrazia resta in piedi in certe zone del mondo, è nonostante – e non grazie – a chi voleva esportarla a colpi di bombe.