«Gaza non è un’eccezione. Gaza è la sindone del governo di Israele.» La trama si legge nitida aprendo il rapporto di Mediterranea with Palestine su Masafer Yatta: in 129 giorni, 838 violazioni in 27 villaggi; quasi una su due è un’invasione di proprietà (409), poi 51 demolizioni, 110 tra arresti e detenzioni, 12 nuovi o ampliati avamposti. È un metodo: coloni e forze dell’ordine agiscono in sincrono per produrre spossessamento e resa.
Il diritto lo dice da tempo. Nel Parere del 19 luglio 2024 la Corte internazionale di giustizia qualifica l’insieme delle pratiche israeliane nei Territori occupati come illegale; impone agli Stati terzi obblighi di non riconoscere, non assistere, cooperare per far cessare la situazione. Non una nota a margine: un vincolo giuridico.
I numeri descrivono l’ingegneria demografica: oltre 700.000 coloni in Cisgiordania, avamposti incentivati e poi “legalizzati”; l’invasione della sfera privata come anticamera di aggressioni, incendi, blocchi, confische. La “de-palestinizzazione” è una politica di Stato.
C’è poi l’architettura carceraria: corti militari con tassi di condanna fino al 99,7%; detenzioni amministrative senza capi d’accusa rinnovabili; a maggio 2025 i prigionieri palestinesi sono 10.068, con migliaia di persone senza processo. È la normalizzazione dell’arbitrio come strumento di governo.
Per questo Gaza è una sindone: imprime sul tessuto del presente l’immagine rovesciata di un sistema che si vede identico, seppure a intensità variabile, da Hebron a Khan Younis. La comunità internazionale non può continuare a contemplare il lenzuolo e fingere di non riconoscere il corpo.