L’Unione europea si è presentata al Climate Ambition Summit di New York con le mani vuote. Dopo mesi di litigi interni, la Commissione ha portato soltanto una dichiarazione d’intenti e la promessa di chiudere un accordo sul clima entro la COP30 di novembre in Brasile. L’ONU chiedeva un target al 2035, ma l’Europa non l’ha avuto. Al suo posto, una forchetta di riduzione compresa tra –66,3% e –72,5% sulle emissioni rispetto ai livelli del 1990, priva però di valore politico senza l’ok dei governi. È il segno di un ripiegamento che segna il tramonto dell’immagine Ue come “capitano” globale della transizione.
Le cause del blocco
Le ragioni di questa paralisi sono molteplici. Il caro-energia, acuito dalla guerra in Ucraina, ha gonfiato i costi della transizione e reso più difficile difendere obiettivi ambiziosi in economie già in affanno. La stagnazione industriale pesa soprattutto su Germania e Polonia, che continuano a difendere l’auto e il carbone. A frenare c’è anche la spinta alla militarizzazione: l’aumento delle spese per la difesa sottrae risorse ai fondi del Green Deal e riduce lo spazio di manovra per nuovi investimenti climatici. Infine, l’avanzata delle destre radicali, da Varsavia a Berlino, fornisce sponda politica a chi vuole rallentare.
Dentro questa cornice, la Francia di Emmanuel Macron lavora per diluire i nuovi obiettivi, mentre Germania, Polonia e Repubblica Ceca hanno alzato barriere esplicite. Il commissario europeo al clima Wopke Hoekstra ha provato a rivendere il compromesso come «un grande passo avanti», ma la formula ha imbarazzato molti partner internazionali, che si aspettavano dall’Europa la definizione di un percorso credibile verso la neutralità al 2050.
Il problema è anche di coerenza interna: Bruxelles si era costruita la reputazione di leader con il Green Deal del 2019 e la legge europea sul clima che impone il taglio del 55% delle emissioni al 2030. Oggi però, mentre si avvicina quella scadenza, gli strumenti di attuazione sono incompleti, i fondi insufficienti e i governi divisi sulla direzione da prendere. Senza obiettivi intermedi al 2035, l’intero percorso verso il 2050 rischia di trasformarsi in un annuncio senza cassetta degli attrezzi.
L’occasione di Pechino
Il prezzo geopolitico è già evidente. L’asse con i piccoli Stati insulari, storicamente alleati dell’Europa, si è rotto: diversi governi caraibici e del Pacifico guardano ora a Pechino come interlocutore più affidabile. La Cina è pronta a riempire il vuoto. Secondo i dati del ministero dell’Ecologia, le sue emissioni potrebbero raggiungere il picco già nel 2025. Dal 2022, Pechino ha investito oltre 210 miliardi di dollari in rinnovabili in giro per il mondo, rafforzando l’immagine di leader operativo mentre Bruxelles resta impantanata.
La diplomazia climatica cinese, rafforzata anche dalla Belt and Road verde, offre finanziamenti e tecnologie ai Paesi vulnerabili, creando legami politici che un tempo erano patrimonio europeo. Se la Cina dovesse tradire le aspettative, l’Ue avrebbe poca credibilità per criticarla: come può impartire lezioni chi non riesce a mettere d’accordo i propri membri su un obiettivo intermedio?
Gli analisti cinesi parlano ormai dell’Ue come di una “media potenza” climatica, declassata dal ruolo di “front wheel” del tricycle globale. Persino funzionari ONU hanno richiamato Bruxelles: «Non è il momento per l’Ue di cedere la leadership», ha detto un portavoce del segretariato UNFCCC. Ma la realtà è che senza un obiettivo intermedio al 2035 o al 2040, l’Unione non guida più il gioco. Resta formalmente impegnata alla neutralità climatica entro il 2050, ma non siede più in cabina di regia: da motore della transizione è scivolata in panchina, con la Cina pronta a occupare il campo.