La fotografia scattata non più tardi di due mesi fa dal Censis sul rapporto tra gli italiani e la guerra torna di estrema attualità nei giorni in cui l’escalation tra i Paesi Nato/Ue e la Russia è tornata di estrema attualità. La disponibilità a combattere è residuale, il consenso per un coinvolgimento diretto inesistente. Solo il 16% degli arruolabili (tra i 18 e i 45 anni) si dice pronto a imbracciare le armi in caso di conflitto. Un dato che conferma una distanza netta tra la retorica sulla difesa dell’Occidente e la volontà reale del Paese.
Secondo lo stesso sondaggio, il 29% preferirebbe ricorrere a mercenari pur di non arruolarsi, mentre la maggioranza si rifugia nella neutralità come soluzione auspicabile. Due terzi degli intervistati non credono nel supporto effettivo degli Stati Uniti, pur riconoscendo l’importanza delle alleanze. È una contraddizione che spiega il disincanto verso le promesse di protezione atlantica e, allo stesso tempo, la resistenza a un protagonismo bellico. Solo il 31% ritiene probabile che l’Italia possa essere coinvolta in una guerra entro i prossimi cinque anni: un dato che mostra quanto scarsa sia la consapevolezza della realtà attuale.
Un Paese già in prima linea
Perché la realtà è che l’Italia è già parte dello schieramento militare. Più di tremila soldati sono dispiegati tra Estonia, Lettonia, Bulgaria e Ungheria, con oltre mille veicoli e una ventina di aerei. L’operazione è coordinata dal Comando operativo di vertice interforze (Covi) a Roma. A Solbiate Olona, in provincia di Varese, è pronta la Forza di reazione rapida della Nato, in grado di mobilitare fino a diecimila uomini e oltre millecinquecento mezzi.
La distanza tra questi numeri e la percezione pubblica non è casuale: è il prodotto di una narrazione politica che tende a minimizzare la portata dell’impegno militare. L’opinione pubblica continua a immaginare un Paese ai margini, mentre da oltre tre anni l’Italia è parte integrante della postura di deterrenza sul fronte Est.
Una memoria corta
Il paradosso è che la memoria storica avrebbe dovuto insegnare altro. Nel 1999, durante la guerra in Jugoslavia, l’Italia avviò le operazioni militari prima ancora che il Parlamento potesse discuterne. Fu un precedente che segnalò quanto fragile possa essere il controllo democratico sulle scelte di guerra. Oggi lo scenario rischia di ripetersi, con un Parlamento relegato a ratificare decisioni già prese e un’opinione pubblica sostanzialmente ignara.
Il sondaggio del Censis mette in luce questa doppia inconsapevolezza: la guerra viene percepita come remota e improbabile, mentre l’Italia è già coinvolta in prima persona. La disponibilità minima a combattere si accompagna a una fiducia sempre più bassa nelle alleanze tradizionali. La preferenza per la neutralità diventa allora un dato politico, che i governi non possono ignorare.
Una contraddizione che pesa
Il messaggio che arriva dagli italiani è netto: la guerra non è un’opzione. Ma questa contrarietà si scontra con la realtà delle missioni militari già operative. È una frattura che rischia di esplodere se mai si arrivasse a un conflitto dichiarato. Da un lato, la fedeltà agli impegni della Nato; dall’altro, un’opinione pubblica ostile e pronta a voltare le spalle.
La questione non è astratta. La scelta di destinare risorse, uomini e mezzi a scenari bellici lontani pesa sui bilanci pubblici e sul consenso interno. Con un Paese che invoca la neutralità e diffida degli Stati Uniti, ogni decisione di escalation militare rischia di trasformarsi in una crisi politica domestica.
Il Censis fotografa dunque un’Italia divisa tra gli obblighi internazionali e una popolazione che preferisce restarne fuori. In mezzo, il vuoto di consapevolezza, che permette al governo di muoversi con margini larghi senza un vero dibattito pubblico. È questo scarto tra retorica e realtà che segna la distanza più profonda: quella tra un Paese già in guerra e cittadini che non vogliono nemmeno immaginarla.