Gli Stati Uniti hanno offerto a Hamas un «passaggio sicuro» da Gaza verso le zone ancora sotto il suo controllo, scrive Axios. Non è un gesto umanitario: è l’ammissione che dopo due anni di guerra Israele non ha il controllo della Striscia di Gaza e che Washington preferisce un ordine negoziato a una sconfitta proclamata. La tregua si regge così, su un equilibrio tra il fallimento militare e la convenienza politica.
Nelle stesse ore, il Washington Post rivela che un rapporto interno del Dipartimento di Stato documenta «centinaia di possibili violazioni dei diritti umani» commesse da unità israeliane. Centinaia, ma nessuna conseguenza. La legge Leahy vieta di fornire armi a chi viola sistematicamente i diritti umani, ma per Israele si sospende anche la legge. È l’ipocrisia codificata: gli Stati Uniti registrano le prove dei crimini e allo stesso tempo continuano a fornire munizioni e copertura diplomatica.
Sul terreno, la tregua è uno scambio di cadaveri. Hamas ha restituito le salme di due ostaggi israeliani, Israele ha risposto consegnando trenta corpi palestinesi. Sacchi neri senza nome, depositati negli ospedali di Khan Yunis che non hanno nemmeno gli strumenti per identificarli. Finora sono oltre duecento i corpi restituiti in questo baratto di morte. Ogni consegna diventa un atto politico: più corpi passi, più tregua compri. È l’esatto contrario del diritto umanitario.
E l’Europa? Il governo italiano si accoda, parla di «stabilità» e tace sul meccanismo che produce questi scambi, perché metterlo in luce significherebbe ammettere che non c’è un processo di pace, c’è un’amministrazione del conflitto. È questa la tregua che ci raccontano: una tregua di resti umani, mentre Washington prepara la forza internazionale che dovrà amministrare le rovine. La guerra finisce, dicono. In realtà, cambia solo chi conta i morti.