Nel disegno di legge che Fratelli d’Italia spinge in Parlamento – e nel decreto che potrebbe anticiparlo – la casa diventa un conto da chiudere con la fretta delle scadenze. L’inquilino moroso riceve un ordine di pagamento entro quindici giorni; se non riesce, lo sgombero scatta in sette e l’intera procedura si chiude in trenta.
Non più davanti a un giudice, ma a una nuova Autorità per l’esecuzione degli sfratti incardinata al Ministero della Giustizia. È un trasferimento di potere silenzioso e decisivo: la fase in cui si decide chi resta e chi va via migra dall’aula di udienza a un ufficio amministrativo.
Dati e realtà: la fotografia di un’emergenza strutturale
Nel 2024 gli sfratti sono stati 40.158, +2% sul 2023. Quasi 30 mila riguardano la morosità incolpevole; il 47% si concentra nei capoluoghi dove i canoni crescono mentre i salari ristagnano. Non è l’eccezione, è la regola di un disagio ormai radicato. Eppure da tre anni il governo non rifinanzia né il fondo affitti né quello per la morosità incolpevole. Il risultato è un cortocircuito: si velocizza l’uscita di casa senza costruire alcuna entrata alternativa. In questa cornice, l’Autorità chiamata a «snellire» diventa il perno di una gestione che accorcia i tempi e allunga le distanze tra chi ha strumenti e chi ne è privo.
I sindacati degli inquilini – Cgil e Sunia – indicano una rotta opposta. Servono risorse immediate per almeno 900 milioni di euro per contenere l’incidenza dei canoni e una strategia pluriennale sull’edilizia residenziale pubblica: fino a 600 mila alloggi nuovi o recuperati, rigenerando il patrimonio esistente e vuoto. Chiedono anche regole stabili per il canone concordato e poteri ai Comuni per governare gli affitti brevi nelle aree più stressate. È un’agenda di politiche, non un cronometro.
La scorciatoia normativa e le garanzie tagliate
Il nuovo impianto deroga all’articolo 658 c.p.c., che oggi tutela il contraddittorio davanti a un giudice con l’intimazione di sfratto e l’ingiunzione contestuale dei canoni. La riforma sposta il baricentro sul procedimento amministrativo, dove il titolo esecutivo nasce senza un’udienza vera. Giuristi e sindacati evocano profili di attrito con l’articolo 24 e l’articolo 111 della Costituzione: diritto di difesa, giusto processo, giudice naturale.
La politica risponde con la parola magica della stagione: «semplificazione». Nella pratica, significa comprimere i tempi là dove servirebbe invece valutare vulnerabilità, minori, disabilità, percorsi di fuoriuscita dalla violenza domestica, malattia e perdita del lavoro.
Mentre la retorica addita il turismo mordi-e-fuggi come fattore di pressione sui canoni, la Manovra 2026 sembra volersi limitare ad alzare al 26% l’aliquota per gli affitti brevi intermediati da piattaforme. È un intervento fiscale marginale, privo di una disciplina organica del settore, che non tocca l’offerta reale di alloggi né i meccanismi di concentrazione immobiliare nelle zone centrali.
Collegare l’accelerazione degli sfratti a una risposta contro gli affitti turistici suona come un capovolgimento narrativo: si irrigidiscono le procedure di uscita dell’inquilino e si lascia intatto l’ecosistema che rende la casa un bene sempre più raro e caro.
Nel frattempo, la macchina comunale si trova a gestire l’aumento degli sfratti con servizi sociali sotto organico e senza fondi strutturali. Lo sgombero «in sette giorni» diventa il passaggio più facile; ciò che non c’è è il «giorno otto»: dove vanno le famiglie? senza un piano per alloggi ponte, sostegni all’affitto e investimenti nell’Erp, la risposta resta emergenziale e costosa anche per la collettività, tra dormitori, assistenza e perdita di continuità scolastica per i minori.
Ridurre i tempi anziché i canoni
Il governo afferma di voler «ridurre i tempi». È un obiettivo semplice da misurare ma povero di senso se ignoriamo cause e conseguenze. Ridurre i tempi per chi ha più forza contrattuale non aumenta le case disponibili, non abbassa i canoni, non alza i salari, non ricuce il rapporto tra redditi e città. Significa sostituire l’inerzia delle politiche con la velocità dell’esecuzione. La casa è trasformata in pratica amministrativa, la vulnerabilità in una pratica scaduta.
Il quadro si legge nei numeri e nelle scelte. 40.158 provvedimenti in un anno raccontano l’Italia che scivola; i 3 annisenza rifinanziamenti dicono l’Italia che non tende la mano; l’Autorità al posto del giudice racconta l’Italia che confonde efficienza con giustizia. L’effetto è una procedura più rapida per mandare in strada famiglie già fragili, senza una sola riforma capace di ampliare l’offerta sociale, calmierare i canoni, rafforzare le tutele. Il resto è propaganda.
Accorciare i tempi non risolve il problema abitativo. Lo sposta: dal tribunale al marciapiede. E lascia irrisolte le uniche tre parole che contano in una democrazia che voglia dirsi tale: case, diritti, città.