Trent’anni dopo, Israele non ha ancora smesso di sparare contro Yitzhak Rabin. Quel 4 novembre 1995 non fu solo la morte di un uomo, ma la fine di un’idea di Stato. Un Paese capace di credere alla pace, al diritto, al compromesso. La pallottola esplosa da Yigal Amir non colpì soltanto il primo ministro, ma l’intera struttura democratica che gli estremisti volevano abbattere. Da allora, Israele non si è più rialzato: si è spostato verso la sua ombra.
Quando la folla gridava «Morte a Rabin»
In piazza Sion, nell’autunno del 1995, c’erano i simboli di tutto ciò che oggi è diventato normalità: il fanatismo religioso, il disprezzo per la legge, la violenza elevata a dovere patriottico. Mentre Benjamin Netanyahu arringava la folla dal balcone, sotto di lui bruciavano le foto di Rabin con l’uniforme nazista e risuonavano gli slogan «Rabin boged» – Rabin traditore – e «Mavet le-Rabin».
Fu allora che la destra israeliana comprese il potere dell’odio come strumento politico. Rabin rappresentava la pace di Oslo, il coraggio di parlare con Arafat, la possibilità di uno Stato condiviso. Chi lo uccise lo fece nel nome dell’“Israele puro”, quello dei coloni, del sangue, della Bibbia brandita come arma.
La vedova Leah rifiutò di stringere la mano a Netanyahu al funerale, accusandolo di aver coperto e fomentato quell’odio. Aveva ragione. Non era solo incitamento: era l’atto fondativo di una nuova Israele, quella che avrebbe imparato a sopravvivere di guerra.
Il filo nero che unisce Amir a Ben-Gvir
La generazione che allora gridava nelle piazze oggi siede nei ministeri. Itamar Ben-Gvir, che nel 1995 mostrava in televisione il simbolo strappato dall’auto di Rabin minacciando «arriveremo anche a lui», è oggi ministro della Sicurezza nazionale. Benjamin Netanyahu, che allora legittimava i fanatici per convenienza politica, è ancora premier, prigioniero dei suoi stessi alleati estremisti.
La loro ideologia è sempre la stessa: l’eredità del rabbino Meir Kahane, bandito dalla Knesset per razzismo e celebrato da chi oggi governa. Kahane predicava l’espulsione degli arabi, l’annessione totale dei territori, la supremazia etnica mascherata da religione. Allora era un reato, oggi è un programma elettorale.
Così, il linguaggio dell’incitamento è diventato legge. La “sicurezza” è il nome con cui si giustifica l’occupazione. La “difesa” è la formula con cui si bombarda Gaza. La dottrina che permise di chiamare Rabin “traditore” è la stessa che oggi definisce i palestinesi “terroristi” in blocco, cancellandone il diritto all’esistenza.
Dalla pace negata al genocidio in corso
Chi vuole capire come si sia arrivati al genocidio di Gaza deve tornare a quella piazza. Quando Rabin fu ucciso, l’idea di una convivenza con i palestinesi fu sepolta con lui. Da allora Israele ha coltivato il culto della minaccia eterna: ogni bambino palestinese come potenziale nemico, ogni tregua come sospetto.
Trent’anni di governi ossessionati dal controllo e dall’espansione hanno trasformato la democrazia in un regime etnico-militare. Le colonie sono diventate città, la destra religiosa ha preso possesso delle istituzioni, la magistratura è sotto attacco, e la forza è diventata principio di governo.
Netanyahu, l’uomo che nel 1995 non volle fermare la folla, oggi guida un esecutivo che riduce Gaza in macerie e definisce “necessità militare” il bombardamento di ospedali e scuole. Ben-Gvir, che allora sventolava simboli rubati, oggi distribuisce armi ai coloni. Smotrich parla di “cancellare interi villaggi”. È la stessa grammatica morale: cambiano solo i bersagli.
Rabin aveva avvertito che la “via della guerra” avrebbe consumato Israele dall’interno. Aveva ragione. L’omicidio non fu l’interruzione di una stagione di pace, ma l’inizio della sua negazione sistematica. Trent’anni dopo, lo Stato che prometteva di difendersi dai terroristi è diventato ciò che temeva: una macchina che produce terrore, convinta che la violenza possa sostituire la politica.
L’eredità di Rabin non è stata raccolta. È stata rovesciata. Oggi il suo assassino ideologico siede al governo, e Gaza è il risultato di quella vittoria. Israele ha smesso di difendere se stessa: difende solo la propria paura.