A.A.A. Italia vendesi, così diventiamo una colonia

di Sergio Patti

A.A.A. Vendesi Italia. Prezzi da saldo. Unico difetto: poca certezza del diritto. Ma questo i Fondi e la grande finanza internazionale lo sanno bene. Un’opera necessaria, approvata a tutti i livelli politici e amministrativi, può restare bloccata per decenni, come nel caso del rigassificatore di Brindisi, bruciando investimenti per centinaia di milioni. Oppure si può finire nel tritacarne della magistratura, perché la legge è uguale per tutti, ma le interpretazioni dei giudici fanno i voli pindarici che vogliono. Basti pensare all’effetto che può fare a un investitore, a New York o a Singapore, vedere condannato per disastro ambientale l’ex amministratore dell’Enel, Paolo Scaroni, nonostante l’azienda abbia rispettato gli standard industriali previsti.

Non solo banche

Ma ai prezzi scontati che vediamo, qualche rischio bisognerà pur correrlo, no? Ecco allora che da alcuni mesi è partita la grande caccia all’affare in Italia. Il Governo e le banche ringraziano, perché nel Paese gira poco denaro e gli istituti di credito hanno sete di liquidità. Chi compra, però, sta procedendo selettivamente, portando a casa a due euro la nostra argenteria di famiglia: grandi marchi del made in Italy, gruppi bancari, pacchetti azionari dei giganti industriali e le strategiche reti infrastrutturali. L’ultimo colpo, ieri, è dei due Fondi – uno Usa e uno brasiliano – che hanno di fatto chiuso una storia secolare, portandosi a casa l’ultima quota venduta dalla Fondazione che controllava il Monte dei Paschi di Siena. Non è la prima banca che perdiamo – Bnl è francese, il primo azionista di Unicredit e il secondo di Intesa SanPaolo e la stessa Mps è il Fondo americano Blackrock – e non sarà l’ultima.

 

Roma addio

La tempesta finanziaria scatenata sui nostri titoli di Stato e su tutto il sistema Paese ha talmente abbattuto i valori di capitalizzazione delle imprese che chi ha due soldi oggi non può trovare niente di meglio al mondo che comprarsi a buon mercato quello che vuole: industrie, moda, alimentare, energia. Così, proprio chi ha scatenato la paura che ha fatto crollare il valore dei nostri asset, oggi sta comprando a mani basse. Fondi pieni di soldi, dagli Stati Uniti all’Asia, stanno facendo partire giganteschi ordini di acquisto. Era il 21 marzo scorso quando la Banca centrale cinese ha acquistato il 2,1% di Eni e il 2,07% di Enel. Se andiamo un po’ indietro nel tempo, però, sono decine e decine i gruppi passati sotto il controllo di competitor esteri. Giusto per citarne alcuni: Riso Scotti, salumi Fiorucci, Chianti, la Parmalat. E poi la moda, con Krizia appena passata alla cinese Shenzhen Marisfrolg Fashion, e Versace, acquistata per il 20% dal Fondo Blackstone. Una strada – quella dell’assalto ai simboli del lusso made in Italy – aperta in tempi non sospetti dai francesi della holding Lvmh, riuscito ad accaparrarsi da Gucci a Fendi, dal maglificio del cachemire Loro Piana alla gioielleria Bulgari, fino alla storica Pasticceria Cova di Milano, strappandola a Prada. È di Paris Group la maison Gianfranco Ferrè e della tedesca Audi la moto Ducati. Ancora i francesci hanno preso di tutto nella grande distribuzione (da Carrefour a Castorama, da Auchan e Leroy-Merlin) e nell’agroalimentare, con Lactalis che si è pappata Parmalat (e la ricca cassa di cui disponeva dopo la cura Bondi) e Cristalco salita poco più di due anni fa al 49% dello zuccherificio Eridania. Parlano invece spagnolo il Riso Scotti, che ha ceduto il 25% all’iberico Ebro Foods, e i salumi Fiorucci (passati nel 2011 alla società di Madrid Campofrio)mentre i pomodori pelati del gruppo Ar Alimentari, sono stati venduti alla società anglo-giapponese Princes, controllata dalla Mitsubishi.