Israele non riesce nemmeno a fingere una pace finta. La tregua che doveva segnare la “normalità” dopo mesi di genocidio è saltata al primo pretesto. Nella notte le bombe sono tornate su Jenin e Rafah, e la Cisgiordania è teatro di rastrellamenti: tre palestinesi uccisi, case sventrate, arresti a decine. I ministri Ben Gvir e Smotrich invocano di «distruggere Hamas», l’ex premier Bennett applaude. Netanyahu, stretto fra i falchi, riunisce il gabinetto di sicurezza: la pace serve solo a prendere tempo, non a cambiare rotta.
Il patriarca Pizzaballa avverte che «con i leader di oggi la pace non ha futuro». Intanto i leader restano. Gaza vive nell’emergenza: oltre 70mila malati di epatite C, ospedali senza anestetici, corridoi che diventano obitori, bambini evacuati in Europa come trofei umanitari di una guerra che si ostina a chiamarsi tregua.
Gerusalemme revoca lo stato d’emergenza per mostrare normalità, ma normalità è il rumore delle bombe, i checkpoint riaperti, le incursioni a Jenin, le granate al confine libanese, l’Egitto che spedisce camion di aiuti che restano fermi ai valichi.
La verità è semplice: non c’è volontà politica di pace, c’è gestione del conflitto. Lessico bellico, contabilità dei cadaveri, propaganda che si traveste da diplomazia. La tregua era la pausa della menzogna. Oggi il copione ricomincia da capo: stessi attori, stesso finale sospeso. Fino alla prossima sirena, finché qualcuno scambierà per pace l’istante tra due esplosioni. E noi, qui, dobbiamo nominarlo senza giri di parole: punizione collettiva, occupazione, apartheid. Finché il diritto non varrà anche a Gaza, ogni tavolo negoziale sarà un set fotografico. E ogni bambino salvato, un promemoria dei molti lasciati indietro. Le sirene non tacciono. Ancora.